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“War”: la forza di un album che non smette di farci cantare

A distanza di 3 anni dall’esordio folgorante di “Boy”, “War” ripropone in copertina il volto inquietante di Peter Rowen. La stessa posizione, le stesse mani dietro la nuca, lo stesso volto imberbe, ma questa volta tutto è cambiato. L’innocenza è perduta per sempre, gli occhi mostrano uno sguardo d’accusa, le labbra lasciano intravedere una scia di sangue. La realtà è riuscita lentamente a spezzare l’incantesimo dell’adolescenza mostrando un mondo rude e nuove battaglie da combattere.

“War” degli U2 analizza il concetto di guerra andando alla radice, ne cerca i significati più nascosti, i caratteri nascosti anche nella piccola quotidianità. Il titolo stesso è un monito, tre sole lettere, che dominano in rosso, a caratteri cubitali, la copertina e suonano come un urlo disperato.

Pochi album hanno la capacità di scaraventarti con irruenza all’interno del loro sound come i primi secondi del brano di apertura, la celeberrima Sunday Bloody Sunday: la canzone esplode con una batteria simile a un tamburino militare, capace di squarciare un silenzio assordante durato anni, capace di distruggere un intero popolo.

Gli stessi U2 erano consapevoli della difficoltà che avrebbero corso parlando della questione irlandese: la “sanguinosa domenica” si riferisce infatti all’attentato terroristico perpetrato proprio una domenica a Enniskillen, nell’Irlanda del Nord, in cui furono uccisi undici civili.

La genesi della canzone fu molto complicata, nonostante la possente sezione ritmica di Adam Clayton e Larry Mullen e i riff di chitarra di Edge, Bono non riusciva a vestire la melodia di un testo adatto, conscio che le sue parole avrebbero potuto essere facilmente fraintendibili dalle due diverse fazioni.

Non gli interessava addossare la colpa a un movimento, Bono voleva esprimere le sensazioni e tirare fuori la rabbia di un’intera nazione stanca di quei continui versamenti di sangue. Più volte lo stesso cantante ha ribadito che “questa non è una canzone di rivolta” (andate a riascoltare a titolo esemplificativo il successivo album live “Under a Blood Red Sky” che presenta una versione dal vivo molto aggressiva che è rimasta negli annali).

Il risultato finale fece di Sunday Bloody Sunday una pietra miliare della discografia della band di Dublino, tanto che in un primo momento rischiò di ingabbiarli in una immagine rigida, per molti anni infatti gli U2 furono soli “quelli di Sunday Bloody Sunday”

Quando fu l’ora di decidere quale canzone pubblicare come primo singolo la scelta però ricadde su un altro brano: Sunday era considerata troppo personale e temuta dalla band stessa per i problemi e le incomprensioni che avrebbe potuto scatenare.

New Year’s Day, invece, parlava di una realtà più lontana, la Polonia di Lech Walesa, di Solidarność (Sindacato libero che si costituì nella Polonia comunista nel 1980, in seguito agli scioperi operai dei cantieri di Danzica) ed era comunque sostenuta da una base sonora di tutto rispetto. La carica oscura della New Wave emerge prepotente in questa canzone, dove basso e tastiere flirtano per tutta la sua durata, creando un momento intenso e magico. Il basso introduce infatti la canzone con un riff che rimane fra le performance migliori di Adam Clayton, mentre The Edge si alterna, come farà anche durante il tour, fra chitarra e piano.

Inizialmente, doveva essere una canzone d’amore che Bono scrisse pensando a sua moglie Ali Hewson, ma il turbolento ambiente politico che esisteva nel mondo a quel tempo, diede un tocco più impegnato alla canzone. New Year’s Day è quindi molto di più di ciò che sembra ad un primo ascolto: non solo brano che canta l’amore, quello desiderato ed anelato nonostante le distanze, ma un messaggio di speranza, un incitamento alla realizzazione dei propri sogni e non solo, una presa d’atto potente e cosciente contro tutte le guerre.

Two Hearts Beat As One, il secondo singolo tratto dall’album, mostra invece l’altro lato della medaglia, ovvero l’amore come incontro di punti di vista differenti, anticipando di quasi dieci anni i temi affrontati poi in quel capolavoro che è One su Achtung Baby.

“Questo pezzo cerca di spiegare l’emozione dell’amore in modo diretto”, ha detto Bono, aggiungendo: “Nulla è bianco o nero: esiste anche il grigio e ognuno vede le cose a modo proprio”

Questo concetto può essere associato anche a quello di guerra, in diverse declinazioni: è guerra lo scontro tra ideologie differenti, è guerra la ricerca di un proprio spazio all’interno della società, è guerra l’impossibilità di amare, è guerra la solitudine metropolitana.

Una delle perle nascoste dell’intero disco è sicuramente Drowing Man (pezzo dedicato al bassista Adam Clayton, è lui il protagonista, l’uomo che metaforicamente sta affogando): costruita interamente intorno alla linea di violino, riesce a edulcorare le sonorità e i temi aspri dell’album lasciando un piacevole senso di quiete. É una delle prime vere e proprie canzoni d’amore scritte dagli U2, il canto disperato e ultimo di un uomo in grandi difficoltà.

L’album non poteva che concludersi con 40, se guardiamo bene l’intera struttura del disco è una scelta quasi naturale.

“War” si apre con Sunday Bloody Sunday e il suo interrogativo “How long must we sing this song?” per chiudersi con l’inno altrettanto potente di 40,

“How Long To Sing This Song?” Per quanto tempo dovremo cantare queste canzoni?

Curiosa anche la storia della nascita di questo ultimo brano, il tempo prenotato per le registrazioni stava per scadere e Bono non aveva ancora scritto il testo, cosi prese in mano la Bibbia e recitò il salmo 40 sulla base musicale. Il risultato stupì tutti, le parole si adattavano alla perfezione alla musica e sembravano la naturale conclusione di un album crudo e scarno.

Per molti anni 40 è stato il brano conclusivo dei vari tour dei quattro irlandesi e anche quando venne soppiantata da altre canzoni il pubblico presente era solito intonare il ritornello come gesto di commiato dal gruppo.

“War” è permeato di un urgente senso d’attesa per un futuro ancora non ben definito, così come lo spirito adolescenziale era predominante in “Boy” e la religiosità in “October”, un album più maturo dei precedenti, che serve a mettere sulla mappa la band irlandese, ma segna anche la fine di una prima fase più rock e punk. A breve sarebbe arrivato un nuovo produttore, Brian Eno, che avrebbe traghettato il gruppo verso atmosfere più astratte e spirituali, il momento di voltare pagina era dietro l’angolo: queste canzoni avrebbero riecheggiato ancora a lungo, ma la musica deve andare avanti, alla ricerca di nuovi orizzonti, di nuove battaglie da combattere.

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