“After Hours” di The Weeknd è un giro sulle montagne russe che, tra alti e bassi, rivela un animo sfaccettato, complesso e non del tutto disposto a mostrarsi nella sua interezza. Abel Tesfaye ha creato, con il suo nuovo disco, una buona sintesi tra la sua anima più cupa, quella emersa dai primi lavori e anche da “My Dear Melancholy”, e quella più brillante, alla “Starboy”.
Lo short film che accompagna l’uscita di After Hours fornisce una utile chiave di lettura, rendendo ancora più chiaro il filone seguito dalla copertina: The Weeknd termina la sua esibizione al Jimmy Kimmel Live e saluta tutti tra gli applausi, con un vistoso cerotto sul naso e il sangue sul viso, pronto a sporcare il suo bel completo. Sorride con tutti i denti di cui è capace ma, man mano che si addentra nel backstage, quel sorriso artificiale si spegne, fino a trasformarsi in lacrime.
Il leit motiv del disco è questo.
L’ album si immerge con tutte le scarpe in una dimensione fatta di piacere e disperazione, orgoglio e autocritica. D’altronde, si dice che sia una attenta analisi della storia con Bella Hadid, fatta di innumerevoli rotture e riconciliazioni.
Nella prima traccia, “Alone Again“, Abel esordisce con un eloquente “I don’t know if I can be alone again / I don’t know if I can sleep alone again”, accompagnato dal ronzio del synth. The Weeknd sa bene come è fatto – e non cerca giustificazioni: “It’s way too late to save my soul / I made mistakes, I did you wrong”, ammette in “Too late”. In “Hardest to love”, il mood Nineties e drum ‘n bass accompagna un moto d’orgoglio, che gli ricorda di essere consapevolmente tanto stronzo, quanto attraente: “I’ve been the hardest to love, it’s hard to let me go”.
Odi et amo.
Afer Hours è un disco che unisce tutte le anime di The Weeknd, ad ogni livello, incluso quello musicale. In “Scared to love”, gioca con la celeberrima “Your Song” di Elton John, trasformando l’indimenticato “I hope you don’t mind” in “I hope you don’t know”. Dagli anni Settanta di Sir Elton al beat degli anni Ottanta il passo è breve: “Blinding light” è un giro su una cabriolet tra i neon e i lampioni, mentre suonano i Depeche Mode e gli Human League.
Quel tuffo nel passato continua anche con “In Your Eyes”, che sfodera il sassofono e un video dalle tinte splatter: il protagonista è sempre una cattivissima versione di Abel, che tuttavia fa una brutta fine. Ad addolcire un po’ la pillola, mentre la sua testa rotola via, ci pensa la pista da ballo, porto franco per eccellenza di ogni stato d’animo.
Da un punto di vista musicale, non si può parlare di questo disco in modo univoco. Nel presentare After Hours, The Weeknd ha spiegato di non essere in grado di attenersi a una sola tipologia di suono, perché così che funziona la sua mente. Attraverso 14 nuove tracce ha voluto mostrare un lato di sé che ancora non aveva palesato e passare in rassegna il passato e, soprattutto, il presente. “Snowchild” gioca con il titolo, richiamando la sua fredda città natale, Toronto, ma anche le droghe: i ricordi lo portano dai suoi 16 anni all’epoca attuale, fatta di contraddizioni e ambizione.
Alti e bassi. Lamento ed esaltazione. Tracce lentissime, con il ritmo appena accennato e leggerezza da cameretta (e vocoder). Ammettiamolo: The Weeknd non uscirà mai dal suo personaggio, gli piace troppo.
“All this money and this fame got me heartless”, canta in “Heartless“, ammettendo di averci provato a diventare un uomo migliore. Ma, evidentemente, la realtà e la sua stessa natura gli impediscono di farlo. Non gli impediscono, tuttavia, di fare musica dal fascino paradossale: la cifra stilistica di The Weeknd è la sua voce, in una corsa senza sosta alla ricerca di qualcosa di diverso, tra dream pop, R&B e new wave, che lo riporta sempre al punto di partenza.
After Hours, alla fine dei giochi, è confortante, soprattutto per lui: dalla copertina, sanguinante e sorridente, tiene il mento alto e continua a sfidare tutto e tutti. Se non è una vittoria, questa…