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“The New Abnormal”: la rinascita degli Strokes in un tempo sospeso

By aprile 12, 2020 No Comments

La notte del 31 dicembre 2019, durante il live degli Strokes al Barclays Center di New York, Julian Casablancas disse: “The 2010s, whatever the fuck they’re called, we took ‘em off. And now we’ve been unfrozen and we’re back!…”. A pensarci bene, che si parli di anni zero o dieci del 2000, sembra oggi di assistere a un nastro riavvolto che resetta il vissuto e fa ripartire tutto dall’inizio. Solo che, nel frattempo, tutto è cambiato.

Dall’inizio del terzo millennio, quando gli echi degli anni ’90 sembravano non attenuarsi mai, la realtà musicale dell’indie-rock sembrava essere un futuro inaspettato. Alla scena newyorkese, in particolare, abituata ad essere una rampa di lancio per nuove idee e tendenze culturali, si deve la nascita del post-punk revival, un calderone intriso di sonorità di fine anni Settanta e di quegli anni Ottanta oscuri che parlavano una lingua contemporanea finalizzata a demolire angosce e inquietudini interiori. Ma non era solo questo, perché, contestualmente, questa nuova linea musicale, sottocategoria dell’indie che strizzava l’occhio a sonorità elettroniche non estranee anche ad atmosfere punk, prefigurava la nascita di una nuova narrazione musicale che avrebbe guidato una manciata di generazioni nei meandri degli anni zero.

Tanti i nomi da ricordare – fra cui Interpol, Franz Ferdinand, The White Stripes – e tutti venivano inseriti in un una nuova mappatura destinata a innovare quel futuro, così impercettibile fino alla fine degli anni novanta, quando era ancora vivo quel disadattamento generazionale disegnato da band come Nirvana. Tutto cambiò radicalmente e gli Strokes, fra queste nuove identità, furono fra i più intuitivi nel disseminare un’idea di garage-rock perfettamente equilibrata, orecchiabile ma al tempo stesso psichedelica, costruendo un’estetica musicale che approfondiva la crisi contemporanea fra il frastuono del traffico newyorkese e la visione offuscata di un futuro innovativo.

Quel rock primordiale e urbano, fedele alla dimensione rudimentale degli arrangiamenti reediani, omaggiava un tempo svanito – legato anche a reminiscenze degli anni Sessanta – che non esitava a rinascere quotidianamente. “Is this it” aveva lanciato nel 2001 un’idea di post-punk talmente limpida e completa, che ritrovarne le forme e i contorni in seguito sarebbe stato difficile. Ma tutto questo non è avvenuto, non c’è stata nessuna vera innovazione, il futuro si è rivelato sempre più incerto e i tempi recenti ne sono la prova.

Sembra quasi profetico, ma così come l’esordio degli Strokes coincise con l’11 settembre, che cambiò irreparabilmente il mondo, nel 2020 “The New Abnormal” esce al tempo del coronavirus, in un’emergenza globale che rimette in discussione le false certezze, proiettandosi come una panoramica già consolidata del post, di come si potrà essere nel dopo. Questo nuovo album, nettamente crepuscolare, è caratterizzato da contorni sbiaditi ed appare come un bilancio personale confuso fra la voce trascinata di Casablancas e il supporto strumentale di Valensi, Moretti, Fraiture e Hammond Jr., dopo un periodo di stasi di sette anni dall’ultimo album “Comedown Machine” in cui ognuno di loro si è cimentato in progetti paralleli vari ed eventuali.

Già dalla copertina, che riproduce l’opera Bird on money di Jean-Michel Basquiat, si potrebbe pensare a un disordine generale, a un caos ingestibile, ma in realtà c’è una consapevolezza di fondo. The New Abnormal è forse il più rappresentativo album degli Strokes da tanti anni a questa parte, una vera linea di confine, la loro destinazione emotiva più introspettiva, a metà fra gli ardori giovanili e la coscienza del tempo, senza mai abbandonare uno stile scanzonato e un’irriverenza spensierata.

Non si torna indietro, non ci sono più quelle composizioni melodiche ridotte all’osso e quel senso di irrequietezza annoiata; stavolta il tempo si fa sentire e un album simile potrebbe rappresentare il loro capitolo finale, nonostante i risvolti melodici ricompongano sensazioni ed emozioni proprie degli esordi giovanili. Sin dall’inizio, infatti, “The Adults are Talking“, che apre il disco, riporta a quegli arrangiamenti tradizionali, quando i ritmi moderati e i suoni centellinati dell’incipit di Is this it erano puro stupore. Allo stesso modo, “Selfless“, che dovrebbe essere il vero inizio del disco, rimane su un equilibrio limpido e controllato, non distorce gli effetti e assume le fattezze di un passato ancora vivido, una vecchia foto che indirizza verso la fine di un tempo: un brano simile poteva benissimo essere inserito fra le ultime tracce dell’album.

Già fino a questo punto, Casablancas e soci non hanno nessuna fretta di bruciare cartucce propinando quei riff reiterati negli anni, ma osservano da una dimensione più matura un approccio musicale confidenziale, riscoprendo una grazia fedele al successo che li aveva contraddistinti agli esordi. A differenza dei precedenti album, si nota adesso una malinconia articolata, forse dettata dal desiderio di rinascere con suoni e voci lontane e riscoprirsi nell’età adulta.

In “Brooklyn Bridge to Chorus“, questo senso di spiccata nostalgia è più marcato, si espande maggiormente nelle melodie, senza mai giungere a conclusioni frettolose. Alquanto bizzarra la parentesi di “Bad Decisions“, che si presenta come una fusione perfetta fra “I Melt with You” dei Modern English e “Dancing with Myself” di Billy Idol. Le contaminazioni sembrano quasi prendere il sopravvento, ma rimangono nitide le coordinate di questa nuova immagine generale che preannuncia una differente percezione artistica.

Eternal Summer” conferma una spensieratezza adolescenziale persistente e sempre agognata, un tramonto sentimentale che predispone un nuovo territorio musicale caratterizzato da tonalità sonore che allacciano contatti con punte di glam e psichedelia anni ’80 (I can’t believe it/This is the eleventh hour/Psychedelic/Life is such a funny journey). “At the Door“, seguendo questo percorso, si indirizza addirittura verso una linea che abbandona ogni percussione, predisponendo un intermezzo riflessivo, dove sintetizzatori e sonorità quasi metalliche interagiscono, riportando il suono alle macchinazioni complesse di Casablancas, sia come solista che come frontman dei Voidz.

La ricerca di queste nuove strade, che comunque ripescano, nella maggior parte dei brani, nei meandri di una new wave rispolverata e adeguata a questi anni, viene modulata attraverso distorsioni ed effetti che dipingono orizzonti lunari, come avviene in “Why are Sunday’s so Depressing?“. Ma in questo scenario, che consente chiavi di lettura differenti, c’è anche spazio per le “ballate” (se così si può dire): “Not the Same Anymore” regala un romanticismo contemporaneo affranto attraverso una composizione semplice e immediata.

Non si abbandonano mai le melodie orecchiabili e i ritornelli azzeccati, ma ogni brano è arricchito da un senso profondo di quiete e disillusione, che prima era forse ignorata. “Ode to the Mets” è un finale perfetto, con le chitarre piangenti di Valensi e Hammond Jr., la voce quasi dimessa e solo un presente inaspettato su cui riflettere.

C’è tanto da aspettarsi da quest’album, paradossalmente anche per chi ascoltava gli Strokes da adolescente, frastornato dai picchi di “The Modern Age” e “Last Nite”, e ora si ritrova con un disco che non vuole diffondere nessuna nuova prospettiva ammaliante, ma preferisce mantenere una decadenza pura ed eccezionalmente umana che rispecchia l’ineluttabilità del tempo.

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