Ora li conosciamo bene. Non essere un’eterna meteora dell’immediato, pronta a svanire dopo qualche mese rientra nell’essenza dei Radio Dept. Eppure, questo ipnotico progetto musicale ha fatto parecchia strada e per chi li ha conosciuti agli albori, si ricorda quanto poco bastasse a perdersi nell’oblio. Adesso, girano per festival, sono spesso in tour (assieme a Daniel Tjäder), lasciano un segno, hanno una discografia ampia, fra EP e LP che hanno disegnato una mappatura, una geografia di empatie e ricordi sofferti che riportano a scenari emozionali di pura malinconia.
I Radio Dept., dopo una carriera che già meritava rispetto con la pubblicazione del disco d’esordio, adesso si trovano in un frangente particolarmente dinamico e cangiante. Il coinvolgimento artistico che traspare da ogni loro nuovo brano risponde al contesto storico, così come la presenza intermittente nello scenario live, i festival, la necessità di trovare qualcosa di nuovo che non sia un ascolto fugace (e ce ne sono in giro di promesse svanite dall’oggi al domani), tanto da non suscitare l’interesse di una riflessione profonda. Agli inizi degli anni zero del duemila, vale la pena farsi tante domande. Per chi ha vissuto quel periodo con un minimo di curiosità, si abbozzavano scenari che ormai appaiono ben consolidati, scolpiti nella roccia, sicuri. A chi osannava, negli anni ’90, un maestoso shoegaze, tanto malinconico quanto immortale, mai dimenticato realmente nello scorrere del tempo, ma vivo e combattivo con band come Slowdive sempre in cerca di nuova linfa musicale, si contrapponevano i difensori del garage-rock (soprattutto newyorkese), in quella dimensione revival necessaria a ricordare quanto fosse importante definire un’annata, cioè il duemila, come la svolta. In questo susseguirsi di idee, categorie, generi, anfratti, si tiene lontano il pop, a parte i portatori sani, gli indistruttibili, che sanno di cosa parlano, senza causare danni o produrre album a sproposito (Belle and Sebastian). Ma non è abbastanza. C’è una luce fredda, gelida ma al tempo stesso calorosa, che dal nord dell’Europa si sposta ovunque.
Arriva dai punti più isolati, dai paesi, da quelle province in cui, a immaginarli, viene alla mente una cartolina con un lago o un fiume, il cielo nebuloso, una foto dove non ci si immagina il caso cittadino, anzi si può ipotizzare quanto la noia possa essere utile in una prospettiva creativa. In questi spazi, arrivano nuove realtà, forse fra le più interessanti del terzo millennio. Gradualmente, si impone un nuovo messaggio melodico, la combinazione perfetta fra pop, post-rock e shoegaze. Fra i tanti che si propongono, con classe e determinazione, arriva un gruppo, The Radio Dept.
Ripensare al 2003 fa sorridere, forse, perché sembrava un periodo florido di innovazione, un cantiere musicale ricco di venature, periferie, versatilità interpretative che crescevano e che, alle volte, restavano protette in una possibile selezione accurata di progetti concreti. In questo vortice, era indubbiamente visibile l’ascesa che stava per coinvolgere l’indie-pop, nella particolare accezione di dream pop/shoegaze. In questo piccolo mondo, l’imponenza dei riff che immortalano un’epoca da cui sfavilla una malinconica quiete interiore non deve mai mancare, senza togliere, tuttavia, spazio alla dimensione elettronica, che consolida l’abbandono di ogni prospettiva di certezza. Questi elementi contrassegnano la carriera della band svedese, che vale la pena ricostruire nella sua coerente evoluzione, nonostante alcuni componenti che ne hanno fatto parte, più di quelli descritti, hanno abbandonato nel tempo tale progetto.
“Radioavdelningen”, che in svedese significa “The Radio Department”, era il nome del primordiale progetto, concepito nel 1995 da due compagni di scuola, Elin Almered e Johan Duncanson. La collaborazione dura, tuttavia, poco e si smette presto di suonare. Soltanto dopo tre anni, Johan Duncanson si rimette in gioco, decide di formare nuovamente il gruppo, che avrà lo stesso nome, ma stavolta i compagni di viaggio sono diversi, perché Martin Larsson accompagnerà Duncanson. Inoltre, Larsson coinvolge la sua fidanzata di allora, Lisa Carlberg, come bassista, Per Blomgren alla batteria e Daniel Tjäder alle tastiere. Nel 2001, arrivano le prime demo, inviate alla rivista Sonic, che ne scoprì il talento proponendo di pubblicarli. Ma fu la Labrador Records ad accaparrarsi la band, etichetta specializzata nell’indie di alta fattura (nomi come Suburban Kids With Biblical names e The Legends derivano da loro, band che nei primi anni del 2000 davano un sincero contributo all’implementazione dell’indie-pop), permettendo la realizzazione del loro capolavoro, Lesser matters, il messaggio iniziale, datato 2003. L’impatto fu immediato, lo stile personalissimo, le distorsioni nei giusti momenti, la voce, invece, quasi una simbiosi con le note. Uno schiaffo al passato, una proposta di empatia, la proposta di un senso intimo di musica con la perfetta introspezione, i suoni a volte ridotti all’essenziale. La voce, a volte sussurrata, viene riprodotta in modo quasi disturbato, quasi fosse tutto registrato dentro una cameretta, rievocando scenari al limite del lo-fi. Fra tutti, la melodia spezzata dalle chitarre graffianti di Where Damage Isn’t Already Done e Why won’t you talk about it?, dove aleggia l’estetica dei Jesus and Mary Chain, e Strange things will happen, cantata proprio da Elin Almered, che consacra il disco come vera rivelazione di quegli anni. Sempre nel 2003, Pulling Our Weight è uno di quegli EP che resta inchiodato al cuore, un autunno dolce fra i versi, con cinque brani da ascoltare senza sosta, dalla title-track a We climb the wired fences e I don’t need love, I’ve got my band, fino a Someone else e The city limit. Una perfetta coesione di momenti e tramonti interiori, rispettando i canoni di un’identità ormai ampiamente perfezionata.
Poi, i primi cambiamenti, come l’abbandono di Blomgren prima della realizzazione di Lesser matters, ma anche come l’uscita di Lisa Carlberg dopo l’uscita del bellissimo EP “This past week”. A questo punto, la linea artistica adottata dalla band è dare prevalenza a basi elettroniche, senza la necessità di una batteria, così come per l’utilizzo del basso. Gradualmente, i Radio dept., diversamente dalla struttura compositiva originaria, modellano un genere musicale in cui pochi sentori melodici, campionati e veicolati da una chitarra elettrica, costruiscono un modello sonoro creativo e tecnicamente completo, a volte forse troppo asciutto.
Sofia Coppola, in quel periodo, per la colonna sonora di Marie Antoinette, scelse il gruppo svedese come supporto musicale, inserendo Pulling Our Weight, Keen On Boys e I Don’t Like It Like This nel film, dimostrando indubbiamente una curiosità artistica sincera.
Nel 2006, la trasformazione è ormai evidente: esce Pet Grief. Fin dall’inizio, aleggia un senso di mistero che sembra avvolgere i suoni; gli effetti giungono gradualmente, ma allo stesso modo si dissolvono. Il suono è diverso, prevale la sintesi, la diffusione di un pensiero isolato, non si giunge ad un punto di reale consolidamento. Si percepisce un marcato distacco dallo shoegaze dell’esordio; le tastiere prendono il sopravvento, gli intermezzi evidenziano un’attenzione ai dettagli, ma in modo sempre cauto. C’è una cura e un’attenzione capillare per i contorni dei brani. Il disco trasmette un carico emozionale puro, ma che, tuttavia, può essere equivocato, richiamando un pop eccessivamente melodico in determinati punti. The worst taste in music, forse, rappresenta il pezzo emblematico, ma anch’esso circoscritto in un recinto sonoro isolante, mai preposto all’esplosione. In ogni caso, un disco che non ha ricevuto adeguata attenzione, ma anche problemi con i tour e una distribuzione limitata hanno pesato sull’impatto di questo disco.
Si torna a registrare. Arrivano Freddy and the trojan horse e David, due singoli. Nel 2010, verranno inseriti nel terzo album, Clinging to a scheme, sicuramente un bellissimo ritorno. Le tonalità ritrovano un equilibrio stilistico già nell’intro, Domestic scene, dove si percepisce il desiderio di una ritrovata dimensione musicale ormai quasi domestica. Heaven’s on fire, invece, coinvolge nell’ascolto con un ritornello spigliato e volutamente sobrio. A token of gratitude, parimenti, riporta alle atmosfere dei primi tempi, così come You stopped making sense.
Dopo un periodo di ulteriori produzioni, come nel 2011, anno in cui viene pubblicato Passive Aggressive: Singles 2002-2010, raccolta di singoli e b-sides, soltanto nel 2016 arriva il nuovo album. Stavolta, il cuore del disco è davvero il mondo esterno, il clima politico ed economico, le guerre, l’ostilità, l’esclusione. Questi fenomeni sono tutti temi cari al duo svedese, che si allontana dalla ricerca di un quiete personale che parta dall’individuo, per giungere alla visione collettiva. Ecco che il duo formato da Martin Carlberg e Johan Duncanson sposta l’attenzione verso una dimensione politica in fase di sofferenza: il messaggio musicale è intriso di partecipazione. Fin dall’inizio, Running out of love, che soltanto per il titolo mette in luce un’emergenza individuale trasmessa al mondo, è intriso di evocazioni storiche: il primo pezzo è Slodoba Narodu, cioè il motto dei partigiani jugoslavi che combatterono l’occupazione tedesca e italiana durante la Seconda guerra mondiale, da tradursi con “libertà al popolo!”, è il segno immediato e la percezione reale di un senso di conflitto globale. Allo stesso modo, Swedish guns, nella stessa direzione, trasmette quell’essenzialità stilistica che risente di uno smarrimento. Thieves of State, all’improvviso, riporta la pioggia, sempre quella. Sembra ancora inverno. This this was bound to happen, che nella versione originaria sembrava un brano dei Teenage fanclub, forse è il pezzo più familiare al duo svedese, con una patina elettronica in questo caso necessaria, ma interessante nella struttura melodica. Anche Can’t be guilty, in una simile tracklist, riscrive lo spirito della band nella sua maturità artistica, anche se il messaggio diffuso sembra manifestarsi con convinzione anche nei frammenti puramente strumentali, come Thieves of State e la stessa title-track, Running out of love, come se le parole, a volte, risultano insignificanti quando c’è la musica.
Questo percorso è sicuramente indicativo di un certo modo di intendere la musica, indifferente a certe necessità, quali la versatilità al tempo, concepire la post-modernità come vincolo artistico. Loro rispondono alle loro volontà, creano un messaggio musicale personale, perennemente intimo, quasi un segreto per ogni ascolto individuale. I loro testi, tracce sensibili di un isolamento emotivo, ridondante, immediato. Never follow suit, Occupied e Teach Me To Forget, altri singoli, altre tracce al loro interno, altri brani, un bisogno personale di diffondere segnali sonori. Ad ogni modo, la loro ricerca è al passo con i tempi proprio perché all’orizzonte, miseramente, sembrano soddisfare maggiormente i ricordi piuttosto che il futuro. La nostalgia è una luce reale.