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In The Court of the Crimson King – King Crimson (1969)

By gennaio 28, 2020 No Comments

Mi tocca.

Mi tocca perché avevo promesso questo pezzo in occasione del suo cinquantesimo anno, nell’ottobre del 2019. Mi tocca perché è uscito lo stesso giorno del mio compleanno e anche se non significa niente, invece conta tantissimo.

Mi tocca perché se non scrivo io di questo disco, lo farà qualcun altro e la cosa non mi va a genio.

L’inizio di ogni male secondo alcuni, i nemici del genere progressive (termine odioso, concordo), la perdita dell’innocenza, la fine dell’epoca dorata del rock.

Difficile a dirsi. Certo ITCOKC è un cadavere ingombrante, qualcosa che non puoi nascondere sotto un tappeto, sperando che nessuno lo noti. Alla fine, un dito, un piede, una macchia di sangue, rimane sempre fuori. È il primo capitolo di una band, che tale si può chiamare solo in quell’occasione. Poi è diventata una dittatura, certo illuminata, ma sempre dittatura, con Robert Fripp signore e padrone, libero di fare e disfare, di creare e distruggere.

In questo disco, l’equilibrio di forze, il contributo degli altri membri (hehe… riderebbe Peter Griffith), Greg Lake, Ian Mc Donald, Michael Giles, da la percezione di quello che è stato e che non sarebbe più avvenuto in modo continuo e spontaneo, come purtroppo è successo in alcuni casi dei capitoli successivi. Anche se, sempre di inciampi regali si è trattato. Una band libera da pregiudizi o gabbie, capace di spaziare dal jazz alla musica classica, alla concrete music, al rock più carnale.

Fin dalla fiatata delle canne di organo che apre il lato A si capisce che c’è qualcosa di strano. Il riff proto doom di 21st Century Schizoid Man, investe l’ascoltatore come un autobus a due piani, mentre la voce satura di Lake, non ancora tranquillo milionario con Emerson e Palmer, declama parole abrasive, frutto della fantasia del poeta di corte Peter Sinfield.

Eppure, tutto questo non dura. Un break improvviso fa sterzare il brano dai binari della prevedibilità e il sax di Ian McDonald lo trascina sul terreno insidioso del free, manco fosse un Albert Ayler del Sussex.

E poi, mai si parlerà bene abbastanza di Giles, primo tra i grandi batteristi che cavalcheranno in nome del Re. Il suo timing, i suoi controtempi, la sua capacità di “sentire” la musica, di “capire” prima ancora che la nota successiva sia suonata, non ha eguali. Specie a fronte dei modesti metronomi che affliggevano alcuni gruppi del tempo.

Non fateci l’abitudine: già al secondo brano la musica cambia. Quando pensate che nulla potrà portare sollievo alle vostre orecchie martoriate dal napalm, ecco arrivare, portato da lievi battiti di ala, I Talk to the Wind. L’atmosfera sospesa, come le punteggiature di chitarra elettrica, quasi in stile lounge, evoca paesaggi arcadici che ispirano pace interiore (citazione voluta). Gli accordi in odore di musica sacra del mellotron, da quel momento strumento maledetto, simbolo demoniaco per eccellenza, ispireranno le tristi carriere di oscuri accoliti come Genesis, Gentle Giant, Cressida. Brutta gente.

Il brano successivo, l’ossianica Epitaph, con i suoi tristi arpeggi di chitarra acustica, preme ancora di più sul tasto del tardo romantico e chiude il primo lato lasciando aleggiare nelle orecchie degli ascoltatori il presentimento di oscuri presagi.

Mai King Crimson quando credi di averli classificati, ecco che ti sorprendono.

E se l’inizio di Moonchild, farà ballare a Cristina Ricci uno spettrale tip tap nel film di Vincent Gallo, Buffalo 66, è il seguito a stupire. La parte successiva del brano è frutto di una lunga improvvisazione fatta di silenzi, di nuvole di suono che si sfiorano appena, dove i rimandi dalla musica minimalista di primo novecento, citazioni di commedie musicali come Alabama, le influenze di musica orientale, si frullano insieme facendo pensare ad una passeggiata attraverso i giardini zen di Kyoto.

“Smettetela con questa merda e suonateci un blues” Così mi immagino la reazione di parte del pubblico di allora, più attento alla sostanza che alla ricerca introspettiva, adusi alla ricetta base sesso e riff di chitarra degli Stones o dei Led Zeppelin. Peccato che quella, chiamiamola così, fuffa, non solo è propria di un certo tipo jazz elettrico, che già allora risuona nelle orecchie dei londinesi più alla moda, ma anche – pensando agli anni novanta – della scena post rock (anche questo, termine orribile), che ne produrrà parecchia e tutti a gridare alla meraviglia.
Il disco si conclude con le fanfare di The Court of Crimson King. Una maestosa apertura di mellotron ci introduce alla corte di un sovrano.

Immaginiamo pure il buon Enrico che torna ad Hampton Court dopo l’ennesimo matrimonio. La giovane regina al suo fianco avverte un brivido di terrore lungo il collo sottile quando guarda fuori dalla finestra e vede gli usignoli che sui rami dei ciliegi cinguettano una triste litania di morte, mentre i corvi zampettano allegri intorno al ceppo del boia, dove il sangue dell’ultima sventurata brilla ancora umido.

Un ultimo pensiero va alla copertina. L’urlo dell’uomo del ventunesimo secolo dipinto da Barry Godber.

Appena un anno dopo ci lascerà, portato via dal destino più bastardo che può colpire un artista: morire prima che la sua opera abbia avuto successo. Così è stato anche per lui.

Oggi riconosceremmo quell’immagine fra mille, mentre a malapena il suo nome (tranne chiaramente ai sudditi del Re) si è tramandato fino ai giorni nostri. La sua creazione, quel volto dalla bocca spalancata si trova riprodotta su poster, foto, libri, magliette, presine da cucina. La sua espressione di dolore e terrore identifica il gruppo più dello stesso Fripp.

La band si sfalderà quasi subito. Robert Fripp, vittima e prigioniero della sua stessa visione, verrà, abbandonato dai suoi compagni e si circonderà , per i dischi successivi, di cortigiani o mercenari. Sinfield rimarrà l’unico superstite della prima formazione fino al 1972, al disco Islands, quando ormai sarà arrivata la fine del primo ciclo del Re Cremisi.
Ma il regno sopravviverà.

Conclusioni

Qualcuno dice che sia un disco datato, inutile, pretenzioso. Altri lo usano come i-Ching, per prevedere il futuro e si rifiutano di uscire di casa non prima di avere letto ogni mattina un passo delle liriche oscure di Sinfield.

Certo lo stesso Fripp non poteva immaginare quello che sarebbe arrivato dopo, la marea di epigoni funamboli che sarebbero arrivati dopo.
La musica dei King Crimson è un fiume dal continuo mutamento ( tiè, Peter Gabriel). Nell’arco di tre anni dimostrerà di avere poco o nulla in comune con quella dei vari gruppi di cui i KC sono stati ispirazione, penso ai Genesis di Trespass o alla nostra Premiata Forneria Marconi (I Genesis hanno comprato anche un loro mellotron). Per non parlare di abili intrattenitori che alla fine svenderanno la propria arte, come gli Yes o gli Emerson, Lake and Palmer. Ancora risuona il rifiuto sdegnato di Fripp quando gli fu chiesto di sostituire Peter Banks nei primi.
La verità è difficile da stabilire. Molti musicisti, molte band, nonostante la loro volontà, sono state costrette a confrontarsi con questo monolite che precipitò nella scena rock al crepuscolo degli anni sessanta, trasformando e influenzando parte della concezione musicale del tempo. Si può odiare la sua verbosità, l’eccesso di tecnica o di leziosità di alcuni momenti, ma solo perché oggi, purtroppo, ne abbiamo ascoltato e subito varie copie malamente riprodotte da falsari e emuli dalla scarsa immaginazione.

In realtà, quando ITCOKC viene alla luce, i King Crimson sono il nuovo che la musica stava aspettando, il gruppo che mostra una terza via rispetto al rock muscolare e al pop plastificato del tempo. I King Crimson osano, sono bravi e lo sanno e per questo riescono a stimolare il pubblico e ne accettano le reazioni, anche quelle più negative. Dimostrano come la musica possa essere ancora un campo aperto dove generi diversi si possono incrociare, fondere, scontrarsi e generare qualcosa di nuovo, un nuovo flusso sonoro, magmatico che continua a scorrere, in un modo o nell’altro, fino ai nostri giorni.

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