Throwbacktime

The Beatles “Abbey Road”

By settembre 27, 2019 No Comments

“And in the end, the love you take is equal the love you make”

Così doveva finire.

Così doveva finire, con tutti in lacrime che si danno pacche sulle spalle e si abbracciano, anche Linda e Yoko. Con George Martin in lacrime commosso, che soffia dentro il suo fazzoletto “Vi voglio bene ragazzi”. Con John e Paul che si guardano negli occhi e si stringono la mano, un arrivederci e non un addio. Con George e Ringo di nuovo uniti, tutti insieme, tutti fratelli, uno per tutti e tutti per uno.

Così doveva finire, se il tempo non fosse un bastardo, per dirla con Jennifer Egan.

Per l’ultima volta insieme. Scordatevi le divisioni del White Album, cancellate dalla vostra memoria le quattro facce sullo sfondo nero di Leti t Be. Dimenticate il veleno di John, lo sgarbo degli osceni arrangiamenti di Spector o il livido rancore di George Harrison e la rabbia di Ringo. Non più l’ostilità di Linda o la voglia di protagonismo di Yoko. Dimenticate anche il concerto sul tetto, sì molto bello, chi non si sarebbe voluto trovare quel giorno lì con il naso all’insù, ma io ne avrei preferito altri – anni dopo – quando ormai le ferite avevano smesso di sanguinare e loro, con i capelli bianchi e un sorriso pacificato, sarebbe apparsi per un Live Aid o per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi a Londra. E lasciate stare anche quel triste documentario dei quattro separati in casa, i sorrisi di apparenza, falsi come una banconota da tre sterline, il sarcasmo delle risposte di Harrison a Lennon, la prepotenza di McCartney e una manciata di belle canzoni che però avrebbero meritato una migliore sorte.

Lasciatemi lucidare le strisce pedonali di Abbey Road ancora una volta.

Torniamo a quella mattina di agosto, a quella passeggiata, quando i piedi scalzi erano solo piedi scalzi, la targa di un’auto solo una targa e una sigaretta solo una sigaretta e non il chiodo di una bara. Perché è vero tutto prima o poi finisce, e anche i Beatles dovevano finire, ma non così cazzo.

Lasciatemi l’illusione che sia Abbey Road il loro saluto, dimenticate il Sergente Pepe e la sua banda di cuori solitari, hanno offerto buoni servigi, è vero, ma ormai non è più il loro tempo. È il 1969, dal cielo dirigibili tedeschi stanno per scaricare metallo pesante, a ottobre un nuovo pretendente al trono, un re cremisi, si farà avanti mentre gli antichi rivali stringono patti luciferini. Ma loro, gli antichi sovrani, quelli da cui tutto è nato, non vogliono arrendersi, non subito, non senza lottare. E scusate se non ci sono più i quattro ragazzini che scuotevano le frangette e gridavano yeah yeah e scusa Brian che ci guardi da lassù/lassotto, ma c’è un tempo per ogni cosa.

Questa è la fine che ognuno avrebbe voluto. E allora sì che svegliarsi la mattina dopo e scoprire che i Beatles non sono più, sarebbe stato, non dico meno doloroso, ma almeno sopportabile. Perché fin dal primo colpo di rullante di Come together, dalle prime parole, Shot me, che in bocca a John Lennon sanno già di triste presagio, si capisce che le cose sono cambiate.

Accogliamo anche il genio di George Harrison: ragazzo sei bravo e lo sai. Come regalo di addio, due delle sue gemme più belle, Something e Here comes the Sun, e chissà cosa avrebbe potuto dare ancora alla causa se quello non fosse stato l’ultimo atto.

Come ci saremmo voluti trovare su quello yacht in crociera nel mediterraneo, con Peter Sellers e Ringo Starr, solo per cantare insieme Octopus’s Garden. E come è bella la voce di Lennon che svanisce, ingoiata, dai gorghi di rumore bianco di I want you (She’s so Heavy).

Non scambierei le armonie di Because con tutti i gorgheggi di Crosby Stills and Nash, non darei via nemmeno la nota più inutile di Golden Slumbers per l’intera discografia dei Moody Blues, non baratterei l’ultimo accordo di pianoforte di You Never Give me Your Money in cambio del mellotron dei Genesis.

In un mondo giusto, un mondo migliore, è questo il disco finale dei Beatles che ci meritiamo e invece il fatto che sia uscito prima di Leti t be – un mezzo inciampo, di gran classe perché stiamo parlando di loro, ma sempre mezzo inciampo – è solo l’ennesimo delusione che è stata regalata alla nostra storia d’amore. Ancora oggi, mi piace pensare a quello che poteva essere e che non è stato. A un destino che ci ha reso troppo presto orfani di un ricongiungimento, di una pace in cui speravamo tutti.

Vorrei tornare indietro nel tempo, a quel momento quando anche l’ultima nota ha cessato di vibrare, anche lo sberleffo acustico di Her Majesty, e sono solo loro quattro, al limite Martin, ma defilato, che ridono e scherzano insieme. Un momento inventato è vero, ma cavolo se mi volete levare anche la fantasia, allora uccidetemi.

Così lasciatemi immaginare le luci che si spengono, è il momento di andare a casa. Un ultimo abbraccio, ancora un sorriso, l’ultima battuta e poi, lentamente, come se non si volesse andare ma si deve andare, uno alla volta, in fila indiana, in quella tiepida sera estiva, vederli uscire e prendere quattro direzioni diverse. Magari le signore si saranno scambiate delle ricette, un appuntamento per il tè la settimana prossima, un ultimo sguardo alla porta di Abbey Road. Un ultimo pensiero agli anni trascorsi tra quelle mura, siamo entrati ragazzi e ne stiamo uscendo uomini. I concerti insieme, il Cavern, Amburgo, lo Shea Stadium, ti ricordi quella volta a Manila George? Forse un giorno torneremo a suonare insieme, ci tengo, dice Ringo, perché no? risponde Lennon.  L’India adesso è lontana, forse il prossimo anno, dice Paul, forse il prossimo mese, devo prendere lezioni da Shankar risponde George.

Le solite cose che si dicono, ti telefono io, ti aspetto per il mio disco, sai ho un pezzo al pianoforte che vorrei farti sentire Paul, qualcosa che potrebbe piacerti, certo John, quando vuoi. Allora Ringo suonerai nel mio disco? d’accordo George, ma tu suoni nel mio? Ragazzi, andiamo a casa che qui devono chiudere, dice il buon Martin, mentre è lui il primo che non vorrebbe andare. Cosa farò da domani, che ne sarà di me, si chiede, ma poi guarda le copertine dei dischi appesi al muro e sorride compiaciuto.

Il futuro non è importante, non adesso.

E poi basta. Sipario.

Cavolo, così doveva finire.   

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