Qualche settimana fa, in preda a momenti di sconforto dovuti ad eccessiva lucidità, ho scoperto che su Netflix sarebbe stata trasmessa la prima stagione di una nuova serie tv chiamata”Summertime“. La mia reazione istintiva è stata un accenno di controllata felicità e di compiacimento tipico di quando stai per iniziare ad ascoltare un nuovo album, o leggere un nuovo libro che già sai che ti piacerà tantissimo.
E sì, perché questa nuova serie prometteva benissimo, per tutto quello che rappresentava nel mio immaginario la parola Summertime legata alla musica ed a tanto altro.
Mi piaceva il tema, mi piaceva il viaggio musicale che già immaginavo e che avevo ascoltato in anteprima tra social e clip promozionali, mi piacevano quei colori tenui, gialli ed azzurri a me carissimi, di quei posti vicino al mare raccontati da Luigi Ghirri negli anni ’80. Insomma Summertime rievocava un mondo riconducibile alla mia infanzia e non solo, che poteva toccare delle corde sopite.
Tutto molto bello, poi purtroppo l’ho vista.
Sembrerebbe un giudizio eccessivamente impietoso per un prodotto che tutto sommato risulta accettabile per il target di pubblico al quale si indirizza. Il problema di Summertime non è tanto la scarsa qualità dell’operazione, che comunque è un evidente dato di fatto, quanto l’alto tradimento delle aspettative e la pressoché totale mancanza di contenuti.
Tutto l’opposto di The end of the f *** ing world o I Am Not Okay with This, la cui forza, oltre ad una sceneggiatura trasversale non legata esclusivamente ai giovani pur parlando di giovani, è la narrazione per immagini aiutata da una colonna sonora talmente giusta, da essere perfettamente in equilibrio con tutto il resto.
Il racconto di Summertime invece, risulta banale, superficiale e poco incisivo, oscillando tra una mancanza di contenuti ed una retorica insopportabile. Come disse bene Lorne Michaels, “Un tale torna a casa dal college e trova la madre a letto con lo zio; c’è pure un fantasma che si aggira nei dintorni. Scrivilo bene ed è Amleto; scrivilo male ed è una soap opera”. Ecco, Summertime rientra di diritto nella seconda categoria. Una soap opera nostrana vecchia e banale, sintetizzabile nel detto: “Donne e motori, gioie e dolori”.
Riesce persino a ribaltare il concetto, ormai evidentemente superato, secondo cui “le parole sono importanti”, spiegandoci che invece “le parole non contano, le faccine sono importanti”.
Nel cinema non sono un fondamentalista dei contenuti, a patto che le cose siano sapientemente raccontate soltanto per immagini e musica, dichiarando esplicitamente la rinuncia al contenuto. Non è il caso di Summertime in cui nonostante i contenuti siano assenti ingiustificati, si finge la loro presenza.
L’unica nota parzialmente positiva risulta la colonna sonora nata da una selezione musicale realizzata dal cantautore Giorgio Poi, quasi interamente composta da autori italiani della Bomba Dischi con poche eccezioni e soprattutto con la mancanza di un brano inedito. Nonostante l’impressione che alcuni pezzi risultino poco incisivi, non per la loro qualità, ma perché la leggerezza della storia raccontata toglie potenza anche a loro, in alcuni momenti la playlist del cantautore novarese nobilita addirittura la storia, regalandogli una forza che non meriterebbe.
Tra le tante cose interessanti ascoltate in Summertime infatti, spiccano le selezioni jazz tra le quali la Summertime riarrangiata da Raphael Gualazzi e le molteplici versioni di Estate di Bruno Martino, sovrastate da quella di Enrico Rava. Effettivamente Bruno Martino non poteva non essere chiamato in causa perché su quel tema, negli anni ’60, era uno dei più ferrati.
Tanti altri artisti e brani degni di nota tra i quali Salmo, i Coma Cose e lo stesso Giorgio Poi, oltre i grandi classici come The Jesus and Mary Chain con Just like honey e Mina con Il cielo in una stanza, ed alcune piacevoli scoperte, almeno per me, come Mèsa con La colpa.
Di questa grande operazione fatta esclusivamente di marketing, finto vintage e “retromania” non soltanto musicale, oltre ai due problemi principali raccontati nelle prime righe, non bisogna trascurare due evidenti ed insopportabili storture non di secondo piano. La prima è che Summertime prende in giro una generazione di ragazzi, credendoli così stupidi da abboccare solo per una strizzatina d’occhio ammiccante, ad un vuoto cosmico che in nessun modo li racconta, se non nel suo aspetto estremamente superficiale e retorico.
La seconda è che Summertime fa parte di quella lunga lista di prodotti per i quali la pubblicità dell’opera, conta di più dell’opera stessa. La sua immagine, la sua rappresentazione insomma, è più importante del suo essere. “Purtroppo l’ho visto”, scrivevo non a caso utilizzando il “purtroppo”, perché avrei fatto volentieri a meno di vederlo, perché sarebbe stato bellissimo non andare oltre quelle sensazioni che mi aveva suscitato l’idea di Summertime.
Possiamo sicuramente affermare, per chiudere, che questa serie ricorda la famosa metafora del cake design. Da fuori ti sembra una torta buonissima e bellissima, che ti invita ad essere mangiata, poi, una volta assaggiata, ti accorgi che dentro è il solito “mappazzone” di pan di Spagna e panna di cui avresti volentieri fatto a meno.