A quattro mesi di distanza dall’uscita del nuovo e quinto album di Annie Clark/St Vincent, Masseduction rimane una delle uscite artisticamente più di valore di quest’inverno, andando a porsi in quella categoria di vicende per cui, a un certo punto della loro carriera, artisti di stampo più o meno alternativo, indie o sperimentale prendono una vacanza dal loro genere usuale per compiere un’escursione più o meno riuscita nella terra del pop.
Con questo tipo di produzioni Masseduction condivide innanzitutto l’intento di rappresentare un’opera “meta-artistica”, che sancisce la propria adesione al genere attraverso un discorso critico sul genere stesso. Se infatti l’album sembra ripiegare su un uso più consueto dei suoni dello stile pop contemporaneo, con tracce guidate da una ritmica sostenuta e consistente (Los Ageless, Young Lover) e motivi orecchiabili che si ripetono nello sviluppo dell’arrangiamento (Pills, Slow Disco), gli stessi suoni sono spesso portati al limite del verosimile da una lavorazione esagerata (Masseduction, Savior), che volutamente ne smaschera l’artificiosità e con essa l’enorme lavoro di processing e editing the domina il processo creativo dell’industria musicale contemporanea: un lifting distopico nell’era dell’apparenza e della chirurgia plastica, un possibile motivo to Fear the future.
Con la sua nuova uscita l’artista texana sembra quindi entrare a pieno titolo in questa tradizione di escursioni musicali. Eppure Annie Clark riesce ancora una volta a eludere con eleganza i tentativi di facile definizione e a compiere la difficilissima impresa di non deludere il suo pubblico, adagiandosi nel nuovo ruolo con originalità e naturalezza e regalando un lavoro che, anziché suonare come un tradimento della propria anima artistica, appare piuttosto come una sua nuova sintesi. E come nei migliori giochi di prestigio, il trucco è spesso più semplice di quanto si pensi: perché come più volte ribadito dall’artista stessa, Masseduction è forse il più intimo e onesto tra gli album che St Vincent ci ha regalato fino a ora.
Abbandonato il fascino un po’ retrò da film noir in bianco e nero dei suoi album precedenti, creato dalle dissonanze tra suoni moderni e distorti e armonie struggenti e delicate di cori, archi e fiati, Masseduction porta invece alla mente l’inorganicità e i colori sgargianti di una “story” pubblicata su social. L’intento in questo senso è non solo lampante ma dichiarato: a partire dalle brevi “interviste fake” promozionali pubblicate su instagram, dove una St Vincent compostamente seduta davanti a un green screen e fiancheggiata da microfoniste in latex, col seno nudo ma i capezzoli censurati, offre risposte standard e surreali sugli argomenti più inflazionati delle interviste. La strategia continua nell’art concept dell’album, dei video, nel nuovo taglio di capelli, nelle scenografie e coreografie del live: un mare di plastica a tratti pornografico, caratterizzato da outfits dai colori acidi e corpi manipolati e omologati fino a somigliare a manichini. Una trasposizione visiva che risulta perfettamente coerente col sound dell’album, e un gioco di costruzione e decostruzione della propria immagine artistica che riporta alla mente l’articolo che qualche tempo fa definiva la cantante una “nuova David Bowie”.
Ma il contributo originale di St Vincent, il particolare che le permette di riuscire innovativa in questo suo esperimento, è dato dalle parole. Mano a mano che diventiamo coscienti dei testi, del loro significato, Masseduction si rivela per quello che è realmente: un’inno all’umanità post-moderna, dove ogni traccia è un selfie, uno snapshot di vita in cui la patina di filtri, luci, saturazione, non riesce a nascondere realmente le parti più fragili e imperfette dell’essere umano, che riemergono in continuazione in modo tenace, come rughe profonde coperte da troppo cerone.
È attraverso l’uso questa contraddizione che Annie ci parla con un’intimità nuova, non solo nelle due ballate presenti nel disco (Happy birthday Jhonny, New York), ma rivolgendosi direttamente all’ascoltatore in modo costante, dall’appello iniziale a restarle vicino di Hang on me, alla dichiarazione disperata, ripetuta all’infinito di I am a lot like you, I am alone like you (Sugarboy), fino alla confessione amara nel finale di Smoking section, che si conclude però con una promessa: it’s not the end.
Proprio nel momento in cui si ricopre di plastica, con Masseduction St Vincent ci presenta la sua anima più nuda e indifesa che mai, rivelando la doppia fragilità insita nelle insicurezze inscindibili da un’esistenza umana e negli sforzi nevrotici con cui noi e il mondo circostante tentiamo invano di nasconderle.