“Punk” è una gran bella serie. Lo dico subito, perché glielo devo. Quando ho letto della sua uscita, ho pensato che sarebbe stata l’ennesima “operazione nostalgia”, con i soliti filmati e le solite facce. E invece no. In Italia è arrivata a marzo del 2020, in ritardo di un anno rispetto agli States. Quattro puntate, prodotte da Iggy Pop e John Varvatos, che raccontano un movimento, una filosofia di vita, una moda e un’attitudine.
Il punk – tra provocazioni, eccessi, trovate geniali e prese di posizione encomiabili – ha saputo trasformarsi in tutto e niente, attraversando epoche e generazioni, sopravvivendo alle critiche più feroci e, perché no, anche alle più smielate esaltazioni.
Gli episodi di Punk, della durata di circa un’ora ciascuno, approfondiscono momenti storici e musicali, partendo dal proto-punk e arrivando ai giorni nostri. Nel farlo, creano un ponte culturale tra Stati Uniti ed Europa, aiutando a cogliere le tante e fondamentali differenze nel modo di fare musica dell’una e dell’altra area geografica.
Si fa presto, infatti, a dire “punk”, ma la pratica è una cosa ben diversa.
La musica punk è incredibilmente ricca di sfumature, di movimenti, di ideologie e di contrasti. È fatta di sfide e di risse, di condivisione e partecipazione, di eccessi e tremenda normalità.
La prima puntata della serie è dedicata ai proto-punk della scena di Detroit che infiammarono la scena musicale di New York dei primi anni Settanta. Si parla di MC5, di Stooges e di New York Dolls.
Nel secondo episodio ci si sposta nel Regno Unito: nel 1976, quando i Ramones partirono alla volta di Londra, trovarono una scena punk incredibilmente vitale e diversa dalla loro. In Inghilterra, infatti, l’aspetto legato alla moda era praticamente inscindibile da tutto il resto. Probabilmente non era ancora il momento adatto per uno scambio culturale reciproco: il tour americano dei Sex Pistols del 1978 fu un vero e proprio disastro.
L’evoluzione del punk conduce alla terza puntata e ai cruciali anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Gruppi come i Germs, i Bad Brains, i Black Flag e i DOA alimentarono un fuoco fatto di rabbia e alienazione, di critica politica e sociale, di incredibile fastidio nei confronti del conformismo. In quel momento vide la luce l’hardcore.
Nel quarto episodio i filmati d’archivio si fanno meno sgranati. Si parla di band come Nirvana, Bad Religion e Green Day e si fa accenno al movimento delle Riot Grrrl e al fondamentale ruolo svolto da band come le Bikini Kill e le L7. Dai racconti si capisce che è un po’ come se ognuno avesse voluto creare, nel corso di alcune decadi decadi, la sua personale versione del punk. Dal canto suo – e nonostante la sua stessa natura – il punk si è prestato al gioco, mantenendo quel suo spirito primordiale.
Nelle puntate ci sono davvero tante testimonianze: da John Lydon a Wayne Kramer, da Jello Biafra a Marky Ramone, da Debbie Harry a Linda Stein e Danny Fields, da Kathleen Hannah a Thurston Moore, passando attraverso Henry Rollins, Dave Grohl, Josh Homme e Fat Mike. E questi sono solo alcuni dei nomi, perché si potrebbe davvero compilare un elenco lunghissimo.
A Iggy Pop riservo uno spazio a parte.
L’iguana continua a prendersi gioco di tutti noi, esattamente come faceva agli inizi. Pienamente consapevole di essere un’icona vivente, compare poco, ma sempre al momento giusto. Rimane sempre, e comunque, un fantastico animale da palcoscenico, incluso quello televisivo.
Ho detto, all’inizio, che Punk è una gran bella serie. Lo ripeto.
Sentendo parlare adesso tutti coloro che hanno scritto la storia in quegli anni, ti rendi conto di come abbiano continuato a custodire gelosamente un’attitudine tutta loro. Ci credono ancora, a quelle cose – e guai a portargliele via. Non è una visione nostalgica e romanzata (non potrebbe mai esserlo), non ci sono lacrimucce da asciugare in memoria dei bei vecchi tempi.
E non è neanche una visione tutta rose e fiori. Diciamoci la verità: di rose e fiori ce n’erano pochi, c’erano molte più birre e droghe.
Il punto, però, è uno: bisogna custodire la lezione del punk, quello vero, non quello delle magliette della grande distribuzione. Per la maggior parte di quelli che ci credono, è una lezione fatta di riscatto e di obiettivi, di lotte autentiche e di società da cambiare. Bisogna continuare a crederci perché, sì, il punk ha ancora un sacco di cose da insegnarci. Che abbia un sacco di cose da farci ascoltare, non c’è neanche bisogno di dirlo.