Recensione difficile, questa. Difficile per chi, come il sottoscritto, beccato nel pieno del casino esistenziale dei propri 16 anni dal vortice grunge, considera la band di Seattle un pezzo di cuore. Ma c’è un disco di cui parlare, per cui bando ai sentimentalismi.
Undicesimo album in studio a sette anni di distanza dal precedente “Lightining Bolt”, “Gigaton” dei Pearl Jam è un album che suscita più di una perplessità. La sensazione, più o meno presente da “Riot Act” in poi, di trovarsi davanti ad un lavoro poco omogeneo e frammentato viene qui confermata e rafforzata. “Dance of the Clayrvoyants”, il primo singolo estratto, aveva già fatto storcere il naso a molti per la presenza di synth e ritmiche alla Talking Heads. Il brano ha comunque un buon impatto melodico, soprattutto nella parte finale, dove i testi di Vedder trovano il giusto risalto.
Il secondo singolo estratto “Superblood Wolfmoon” riporta le chitarre al centro, con un potente riff che dona alla canzone solidità e che trova il suo punto di forza in quell’alternarsi tra accelerazione/decelerazione già marchio di fabbrica in diversi altri episodi felici dei nostri.
A questo punto occorre fare una precisazione.
In passato i singoli che hanno anticipato l’uscita di un album dei Pearl Jam hanno avuto la caratteristica di non rispecchiare quello che sarebbe poi stato l’intero album. Penso a “Who you are?” per l’uscita di “No Code” o “World Wild Suicide” per “Pearl Jam” o ancora “Mind Your Manners” per “Lightning Bolt”. Tutti pezzi non rappresentativi di quello che poi sarebbe stato il lavoro finale, quasi sempre, tra alti e bassi, degno di nota.
Con “Gigaton” questa tendenza viene invertita. La speranza di trovarsi davanti ad un buon album viene disattesa dal primo ascolto e, purtroppo, anche dai successivi. Si ha la sensazione di un lavoro poco omogeneo e che con quelle poche buone idee presenti nei primi due singoli, i Pearl Jam abbiano sparato subito le cartucce migliori. I pezzi per cosi dire “rock” hanno una struttura troppo elementare e prevedibile.
I giri di chitarra sembrano presi in prestito dagli “Who” (“Never Destination”, “Take The Long Way”) ed in alcuni casi la produzione affidata a Josh Evans, già al lavoro con i Soundgarden e che prende il posto del veterano Brendan ‘O Brien, risulta confusa e poco decisa, come nel prescindibile assolo di basso in “Quick Escape”. Poi ci sono le ballads e qui se possibile il disappunto cresce. Raggruppate quasi tutte nella seconda metà dell’album, sono probabilmente gli episodi più convincenti dell’intero il lotto e grideremmo di felicità se solo Eddie Vedder riuscisse a spostarsi in modo tale da farci vedere il resto della band.
Il punto è proprio questo.
“Seven ‘O Clock”, “Retrograde”, “River Cross”, “Comes then Goes” sono tutti buoni brani, ma potrebbero essere suonati da chiunque. Manca quel senso di insieme, quella coralità che aveva contraddistinto capolavori (non abbiamo difficoltà ad affermarlo) come “Off He Goes”, “Immortality”, “Wishlist”. A farla da padrone qui è l’indiscussa capacità compositiva ed interpretativa di Vedder, che ammiriamo e che non ha bisogno di conferme, ma è talmente presente da relegare l’apporto (ma c’è stato veramente?) di McReady, Gossard e Ament sullo sfondo.
A questo punto forse sarebbe stato meglio fare un disco solista.
Alcune band, i R.E.M. ad esempio, hanno capito quando era il momento di fermarsi, dimostrando grande maturità artistica e senso di profondo rispetto per il loro pubblico. Forse è arrivato il momento per i Pearl Jam di riflettere su questa possibilità, anche e soprattutto alla luce di una carriera che rimane straordinaria. Con la certezza che fino ad allora saremo ancora tra le prime file ad ammirarli dal vivo. Allo stesso tempo, ahimè, rimane la convinzione che difficilmente premeremo di nuovo il tasto play per riascoltare “Gigaton”.