HOMENightclubbing

Nightclubbing #19 – Greta La Medica, un mondo migliore è possibile

By marzo 13, 2021 No Comments

La costa sud della Sicilia può essere descritta come un luogo morfologicamente e sentimentalmente aspro: una lineare sabbiosa battuta dal vento, accarezzata da un mare freddo, attraversato da centinaia di barconi malandati, un braccio di mare che offre un pescato abbondante, uno spazio spesso abusato, un luogo violato da oleodotti, trivellazioni, stabilimenti petrolchimici e vilipendi balneari, ma anche quella parte di mondo dove ha riposato il Satiro Danzante, dove si affaccia la Valle dei Templi, dove scende la Scala dei Turchi e dove troneggia il barocco più bello del mondo, quello del val di Noto. Greta La Medica è nata in questa parte di Sicilia, a Vittoria ed è cresciuta a Macchitella, un nugolo di strade, sobrio, severo, austero, palazzi dal sapore tardo razionalista, che esprimono un tragico senso del pudore “sono nata a casa di mia nonna che faceva l’ostetrica, poi siamo andati a vivere Macchitella, dove ho frequentato la scuola internazionale per i figli dei dipendenti E.N.I., era un mondo a parte, un angolo di Sicilia modulato per accogliere uno dei rari casi di immigrazione dal nord”. Macchitella è un quartiere di Gela, edificato negli anni ’60 per ospitare i dipendenti del vicino ed importante stabilimento E.N.I., che è stato, fino a qualche decennio fa, una borgata estranea alla cittadina gelese, un piccolo nucleo urbano, semi-indipendente.

“Durante la mia infanzia, forse il primo trauma o comunque quello che ho percepito come una violenza, è stato il mio passaggio alla scuola pubblica a Vittoria, dove ho incontrato una barriera gigantesca, rappresentata dal dialetto e poi da tutto quel sottobosco culturale fatto di dicerie e chiacchiere invasive del personale. Non comprendevo e parlavo il dialetto e mi sentivo esclusa, vedevo mia madre come una donna giunonica, con un profumo invadente ma molto femminile, mi ricordava Brigitte Nielsen ed era criticata per la scelta di divorziare dal marito nella Sicilia degli anni ‘80 e per questo anch’io subivo, già a 6 anni, l’esclusione dal gregge”. Uno sguardo può insinuarsi dentro la carne e deflagrare come fosse una carica esplosiva ben piazzata dentro le ossa, una parola, apparentemente innocente, è capace di scavare una nicchia nell’anima di chi viene apostrofato in un certo modo, fino a diventare un ospite indesiderato, un parassita, che si nutre della nostra frustrazione, alimentandola per sopravvivere. “Sono stata, in seguito, molto fortunata, perché ho avuto la possibilità di frequentare un liceo classico sperimentale, dove si insegnava storia dell’arte sin dal primo anno, e dove, soprattutto, ho avuto come docenti, Marina Castiglione, che oggi insegna all’Università di Palermo, e Silvana Grasso, un’affermata scrittrice e filologa. Ricordo la Grasso entrare in classe, far abbassare le serrande, spegnare le luce, per poi riemergere, come un’ombra sulfurea, dentro una luce rossa diafana, immersa nel fumo di sigaretta, che ci parlava di classici greci, del mito, del logos omerico, eroico”.

La differenza fra realtà e sogno si attesta nel grado di elaborazione della mitopoiesi della nostra esistenza: è dal modo in cui rimaneggiamo la realtà che attingiamo immagini e costruiamo immaginari, che sono fantasie reali, narrazioni concrete. Parlare con Greta è trovarsi di fronte ad un assoluto umano, la sua iconicità ha uno spessore descritto dal suo essere sinceramente iconoclasta, le sue parole fanno e disfano le cose, rompendo gli argini che limitano il senso, allargando i significanti stantii, correnti, normati, delle parole e dei fatti. Greta rende rarefatta l’aria delle stanze dove la sua voce si spande: la sua presenza costituisce l’attesa di una possibilità nuova, la profondità delle sue analisi incontra un argomentare sagace, ironico, leggero eppure impegnato in una lotta che si percepisce come affamata di giustizia. Allo stesso modo, la forza enorme, esplosiva, irresistibile, di Greta risiede nel suo offrirsi senza remore, con garbo e passione, all’interlocutore.

Greta è un dono che si palesa nello scoprire il fianco, raccontare il proprio dolore, la propria vulnerabilità, costituendo punti di forza positivi perché empatici, scevri del senso di sopraffazione di un argomentare muscolare, qui dimora la sua assoluta umanità e bellezza. Le parole di Greta causano, a volte, una petite mort, una breve perdita di coscienza, aprendo uno spazio bianco, fresco, dove si inserisce una macchina morbida, fatta di fiele e passione. C’è una frase che mi parla di Greta, è di Renate Siebert e la cita Letizia Battaglia in Mi prendo il mondo ovunque sia: il dolore che si libera dal tradizionale pudore diventa domanda etica e questione politica.

Mio padre desiderava che studiassi medicina e così, dopo il liceo, andai a Padova, dove mi arresi dopo appena un paio di mesi, il progetto era di rilevare lo studio medico di mia zia, ma non è andata, non faceva per me. Così mi sono trasferita a Milano e mi sono iscritta in Lettere Classiche. L’ho fatto perché volevo ardentemente frequentare i corsi di Del Corno, che aveva scritto il manuale da cui ho studiato letteratura greca al liceo, e Zanetto, di cui avevo letto l’Ippolito ed altre tragedie in traduzione. Sono stati anni di studi intensi, arrivavo alle otto del mattino ed uscivo alle sei del pomeriggio, ma anche di dispersione delle mie energie, l’enfasi mi spingeva a frequentare tutti i corsi monografici, mi sembrava di trovarmi in una Babele. Quelli sono stati gli anni in cui mi sono cominciata ad affacciare nell’ambiente gay milanese, in special modo quello del clubbing. Eravamo a cavallo del 2000 e Milano era molto diversa, come del resto anch’io. I party sembravano degli happening e noi avventori dei performer. Avevo un gusto dark, gotico, ero parecchio brava a truccare, erano gli anni in cui era esploso Marylin Manson. La mia apparizione nel trasformismo avvenne impersonando Lucy da Dracula di Bram Stoker, non era un’emulazione delle drag queen alla RuPaul’s Drag Race, col lipsyncing ecc., non c’era ancora questa moda, era più un ricondurmi alla fascinazione che nutrivo per il dark e per tutte queste atmosfere. La scena era completamente diversa, amavo artisti come Franko B., ORLAN, mi affascinava questo mondo. Mi cominciai ad interessare anche alla musica dark, tanto che una delle mie musiciste preferite era ed è ancora Diamanda Galás. Il mio immaginario era composto da questo tipo di personaggi e guardava fino a certe eroine di primo novecento, come la Principessa di Belgiojoso, la Marchesa Casati, facevo ricerca sull’esoterico, che trovo rappresenti una rifioritura estetica”. Greta ha un gusto elegante che considera il fasto come una forma di bellezza scevra dall’esibizione, che fa di un gioiello indossato la memoria di richiami profondi, misterici, estatici.

Milano è un lungo corso con tante vetrine, il luogo da cui si snoda la vita professionale di Greta “A Milano mi sembra di percepire nella notte l’esistenza di due mondi che quasi non si sfiorano, ma dentro cui personalmente mi sento a mio agio allo stesso modo: da un lato il circuito dei club, dall’altro quello dei circoli. Penso al Tempio del Futuro Perduto, al Macao e al club per antonomasia: il Plastic. Due mondi che descrivono una notte feconda, due poli ricchi di suggestioni. Io poi sono una DJ completamente sganciata dai soliti percorsi formativi. L’antefatto del mio percorso nella musica è la frequentazione del gruppo del Pervert, che ha portato dal Regno Unito tanta techno-house ed elettronica a Milano: credo fosse il ’97, lo scenario era una fauna, un serraglio umano, il Pervert era un party dove si mischiavano le tipologie sociali più svariate, dai magnati russi, alle top model del momento, fino alle attrici porno, c’erano gli slave, era un ambiente vivo, sembrava un romanzo di Jean Genet, un quadro dai colori vividi, sensuali”.

La notte, il clubbing e la moda, si sono sempre influenzati e a Milano hanno un rapporto pienamente dialettico. Greta La Medica è stata una testimone di quel crepuscolo degli idoli che si è consumato tra la fine degli anni ’90 ed il primo decennio degli anni 2000. L’arrivo dei social media, delle piattaforme digitali, e di conseguenza dei primi influencer, in musica, come nella moda, ed in qualunque forma d’arte, ha livellato e reso disponibile la fruizione di tanti prodotti artistici, la cui rielaborazione prima era affidata alle pagine di Mucchio Selvaggio, come agli articoli di Anna Piaggi e Isabella Blow per Vogue. La questione, aporetica e provocatoria, è: chi ha guidato la trasformazione dei content creator da firme su riviste, da settimanali, rotocalchi, di elaborazione ed approfondimento, verso l’immediatezza di un post, l’evanescenza di una storia Instagram? Chi, più che guidare, ha assecondato alcuni trend e, cavalcandoli, ne ha esacerbato determinati tratti piuttosto che altri?

Certa moda, così come certa musica, ha smesso di canalizzarsi in vague, di ricercare riferimenti pienamente inseriti in percorsi artistici, per cominciare a guardare ai trend del momento, è arrivata un’invasione barbarica ed è caduto l’impero. Bisognerebbe indagare sul potere reale degli influencer, forse dando luogo di parola a persone che producono forme di riflessioni digitali e a volte deboli, poco stratificate, solo superficialmente situazioniste, la cultura finisce per essere raccontata in maniera sempre più povera, e così chi crea musica, chi fa moda, diventa ostaggio di narrazioni modeste, che finisce per dover assecondare pur di reggersi in piedi, progettando quasi gadget. Forse si è consumato un mondo ed è avvenuta una palingenesi, dove l’originale ha lasciato il posto al pedissequo, forse si è realizzato quel capovolgimento, che Duchamp ha preannunciato, dove quello che è importante non è la qualità del prodotto, ma i suoi rilanci più immediati, mentre tutte le mediazioni sono diventate secondarie. Sembra imperi un certo gusto per il posticcio, per il revival, per il ripescare riferimenti facilmente smerciabili: non si vendono immaginari, ma immagini, non si ricamano pensieri, ma si punta su un joué. Poi, chiaramente, è un discorso con tante eccezioni, per fortuna.

Sono entrata nel mondo della moda come truccatrice, da freelance, venivo chiamata, e lavoravo a tutti livelli, anche per Vogue Italia. La truccatrice ha un ruolo un po’ marginale rispetto alla creazione della storia editoriale, mentre io volevo occupare una posizione da dove poter raccontare, creare storie. Così, decisi di fare la stylist, una collocazione che in quel momento sembrava dare modo di ricoprire, rispetto all’economia di un servizio fotografico, un ruolo quasi da art director. Nel frattempo non avevo mai lasciato il clubbing, così ad un certo punto cominciai a frequentare Pink is Punk di Marcelo Burlon, che si faceva al Bond, un bar, e dove mi ritrovavo con tante personalità della moda e tante amiche, come Lea T.. Un giorno Marcelo mi propose di portare Pink is Punk al privé dei Magazzini Generali e lì esplose tutto. Si venne a creare a Milano una comunità che era super accogliente, quasi borderline, che non seguiva nessun tipo di moda, ma era frequentata da tanti ragazzi stranieri che studiavano moda, venivano tutti gli uffici stile di tutte le maison. Era un momento fantastico. Sempre in quegli anni, Riccardo Tisci venne nominato direttore creativo di Givenchy, un amico che io e Lea T. frequentavamo con piacere, questa amicizia ci faceva sentire parte di un processo creativo, rivedevamo le nostre chiacchiere nella meraviglia delle collezioni di Riccardo. C’è una canzone di Anna Oxa che si chiama Processo a Me Stessa, che andò a Sanremo arrivando penultima, un pezzo che aveva una complessità teatrale, stratificata, fantastica, un pezzo d’arte che racconta molto di me e che finì in una sfilata di Givenchy. Film come L’ora del Lupo e L’uovo del Serpente di Bergman, il cinema di Fassbinder, Santa Sangre e La Montaña Sagrada di Jodorowski, era tutto parte di un immaginario che in quel momento trovava spazio in tutto quello che facevo e che mi circondava”. Siamo ospiti di immaginari fatti di carne e di elaborazioni composte da visioni, Greta La Medica è un aleph, un luogo di rimandi ad una fantasia senza limiti o confini, una costruttrice di sogni, la valigia blu, una musa, un centro di gravità di parole ed immagini seminali. “Di tante cose che mi hanno influenzato, ho restituito sempre tutto alle persone che amo, occupando informalmente un ruolo di mediatore di tutte quelle reference che mi hanno nutrito in questi anni”.

La vita di Greta La Medica è una storia fatta anche di incontri con persone straordinarie “Tra le tante persone che ho incontrato, una che penso abbia fatto la storia del clubbing italiano è Nacha World. Nacha era una DJ che arrivava in consolle indossando il bikini iconico di Chanel, una Birkin e le super elevated di Vivienne Westwood, una donna meravigliosa, che sapeva trasmettere un’energia ardente, era carismatica. Abbiamo diviso spesso la consolle e la sua presenza mi ha dato tanto. Nacha World è stata dimenticata troppo in fretta, mentre andrebbe ricordata per l’enorme eredità che il suo djing ha lasciato al clubbing italiano”. Greta La Medica ha cominciato la sua carriera da DJ al Blanco, quasi per caso “per un periodo mi sono allontanata dal clubbing, la mia vita si era stabilizzata su altri ritmi. Poi sono tornata e l’ho fatto dal Blanco, che all’inizio era un bar che proponeva un aperitivo tranquillo, rilassato. Il mio ruolo era quello di coinvolgere un po’ di gente ed intrattenerla, si stava introducendo il concetto di pre-serata: un po’, francamente, questo ruolo mi annoiava, così una sera ho chiesto a Lorenzo LSP di mettere due dischi. C’erano i CDJ 200, portai un po’ di compact disc che avevo e iniziai facendo selezione musicale, finendo così per suonare una sera intera! Lorenzo mi ha fatto da mentore, insieme a Cristian Croce, mi insegnavano come mixare a tempo. Imparai e ci presi gusto ed è stata per anni una delle mie occupazioni primarie nonché una grande passione. La mia ricerca musicale verte sull’idea del viaggio, è un percorso circolare, posso mettere le Baccara insieme ad un pezzo di musica elettronica, amo il digitale perché mi permette di attingere ad una vastità di mondi e di possibilità”. Greta si può definire una DJ nativa digitale “ciò che più mi affascina in ambito musicale è la visione d’insieme, attraverso un’oculata selezione di brani, spero di far vivere il mio ‘trip’ a chi mi ascolta e a chi balla”

Dopo l’esperienza al Blanco, Greta esplode come DJ “i primi anni ho lavorato come una matta, avevo una stretta connotazione rispetto alla moda, facevo djing in haute couture, un mix suggestivo che mi ha fatto fare delle serate fantastiche, tra alti e bassi, anche fisiologici in questa attività, alla fine ho lavorato sempre, dal 2011 circa fino al pre-pandemia. Una cosa che ricordo con grande piacere è la partecipazione al Life Ball di Vienna”. Greta La Medica oggi si è reinventata scrittrice, mettendo a frutto i propri studi umanistici, così anni di ricerche personali sono confluiti nella scrittura “La direzione della collana Grandi Donne della Storia, che esce col Corriere della Sera ed Io Donna, mi ha affidato il volume su Coco Chanel, che ho scritto a quattro mani con Emanuele Melilli, ottenendo un grande successo, di cui sono molto fiera! Da truccatrice ho capito che non sarei mai arrivata ad un livello alto, che non avrei raggiunto il livello di alcuni leggende come Pat McGrath o Val Garland, perché sono una donna trans, anche come stylist ho percepito la stessa difficoltà. In generale, mi sono spesso sentita squalificata in quanto artista per la mia identità. Forse, ad oggi, non vedo questa forma di silenziamento nel mondo dell’editoria, ma ancora non ho approfondito fino in fondo questo ambiente”. Mentre il mondo celebra il talento e la grandezza di Indya Moore con una copertina dopo l’altra, con tanti riconoscimenti pubblici, quello che spesso accade in Italia è che diversity, inclusion, equality, sembrano quasi dei modi comunicativi senza contenuto.

Siamo passati dal descrivere le persone considerate non normali come lettere scarlatte, all’usarle quasi come un cavallo di Troia, uno stratagemma per penetrare dentro narrazioni che non vengono convalidate nei fatti da forme di inclusione piena e che per questo finiscono per diventare modi di comunicare di maniera, che non corrispondono alla descrizione di una vera eguaglianza. Sarà che siamo un paese che punta alla tolleranza, quel paese in cui le persone, le vite dei soggetti percepiti come altri si racconta di tollerarle, mentre sarebbe necessario lavorare a forme di riconoscimento di tutte e tutti in quanto membri eguali di una stessa comunità, così da puntare ad una convivenza civile pienamente inclusiva. Non ci sono compromessi al ribasso possibili quando sono in gioco i diritti delle persone, i diritti di uno sono i diritti di tutti. Un primo passo sarebbe ammettere che ci sono delle persone che vivono in trappola, a cui non sono concessi strumenti per liberarsi dai traumi inflitti da una società troppo spesso violenta, persone che sono vittime di una ferocia che non è percepita da tutti come un’emergenza.

Siamo un paese in cui luoghi di parola trasversali, pubblici, ospitano performer che fanno appropriazione culturale, colonizzando immaginari che non conoscono, riproponendo una messinscena che ha del macchiettistico, semplicemente perché senza alcun collegamento fra persona e personaggio, pubblico e privato, impegno civile e politico e spettacolo, finendo così per offrire immagini prive di contenuto, dal momento in cui di certe storie sembra che manchi il racconto e la voglia di conoscere le genealogie. La differenza fra la macchietta e l’artista la descrive il vissuto e la personalità, il belletto ed il costume non sono possono essere solo meri tributi, perché sono forme vive di espressione artistica. Non ci si possono intestare le battaglie degli altri, mentre si possono e si devono supportare le battaglie che si ritengono giuste e si deve, allo stesso modo, saper cedere il passo, restituire lo spazio di rappresentanza, la parola, a tutte e tutti coloro sono stati considerati invisibili per troppo tempo. Certe parole sembrano medaglie di latta appuntate al petto di ufficiali dalle uniformi logore, in quella fortezza inutile che sono alcuni media e che ricorda il forte sul fronte del deserto dei Tartari: una linea di fuoco spoglia, morta, che riverbera comportamenti, normazioni, frustrazioni, oppressioni, protocolli, e che pontifica nel vuoto pneumatico che è il racconto dello stato dei diritti delle persone in Italia, almeno secondo la retorica decaffeinata di certi media. Queste sono parole ispirate da Greta La Medica, se un minimo di verità è stata sfiorata, si deve tutto a lei.

Alla fine ci sono individui che sanno apprezzare le persone in quanto tali, per la loro bellezza ed il loro valore, ed è per questo che bisogna coltivare la speranza, credo fermamente nella possibilità di un mondo giusto e credo che piccole e grandi azioni di amicizia e amore testimonino che questa possibilità sia un’ambizione realizzabile: “Poi ci sono delle belle sorprese. Quando conobbi Fausto Puglisi, lavorava per un brand di alta bigiotteria, mi regalò un diadema che aveva indossato Pamela Anderson. Con Fausto conservo un rapporto splendido, lui è una di quelle persone che mi hanno fatta sentire sin da subito valorizzata”. Un mondo migliore è possibile.

Leave a Reply