Nota On:
Gli ex voto sono spesso dei cuori ardenti, offerti per chiedere l’intercessione alla Madonna e ai santi al fine di ottenere un miracolo. Oro che ricopre e riposa sopra le ossa dei santi, in teche d’argento, dove sono conservate anche fiale di sangue, ciocche di capelli, ritagli di umili sai di sacco impuro, oro rimasto nascosto per anni in vecchi comò, spesso tra le pieghe della biancheria intima femminile delle nostre bisnonne. Piccoli orecchini, dono di una zia tabaccaia per un battesimo, anelli di fidanzamento, comprati dopo mesi di sanguinosi risparmi, collanine benedette la domenica delle Palme. Ci spogliamo dei nostri beni più preziosi, di ciò che richiama i ricordi degli eventi più importanti della nostra vita, pur di ricevere una grazia.
L’oro di Napoli è un oro vivo, ardente, in cui scorre sangue affamato di giustizia, oro spogliato, che parla cercando di accostarsi alle persone senza voler insegnare niente, ma raccontando e facendosi raccontare nelle impressioni riportate, nelle azioni stimolate, nelle emozioni suscitate.
Se penso a Vincenzo D’Ambrosio mi torna in mente Silvana Mangano, un viso che è una tempesta placida di emozioni, due occhi che sono due conchiglie che custodiscono due perle nere, capelli morbidi, accomodati con naturalezza all’indietro, e due labbra vermiglie che parlano di salsedine, di scogli.
È la fine di una domenica pigra, il Tirreno, un mare popolare, fatto di traghetti, monnezza, vecchi scafi riparati, di disperati, e poi, verso nord, di grossi yacht tragicomici, tra mogano e improbabili mocassini da barca, ha cullato entrambi prima che c’incontrassimo attraverso uno schermo.
Vincenzo D’Ambrosio mi ha travolto, con la stessa fragile forza di Lea Massari ne L’Avventura di Antonioni: è un fiume di racconti, suggestioni, parole, pettegolezzi, boutades. Lo osservo sdraiato di fronte a me e taccio, mi parla subito della sirena Partenope, che porta al collo, incisa su un piccolo ciondolo d’oro, dono della madre Rosaria: “I credenti amano credere in qualcosa per amore e necessità. Mia nonna aveva partorito prima di mia madre un feto morto, così si è votata alla Madonna del Rosario. Mia madre così è stata chiamata Fortuna, per rispettare la tradizione familiare, ma tutti la chiamano Rosaria, per il voto fatto”.
Il modo di trovare un proprio spazio dentro le maglie della tradizione, alla fine, si trova sempre, col proprio stile, cercando una libera espressione di sé. “Io sono una drag queen. – racconta Vincenzo – Penso sia riduttiva la percezione che noi abbiamo della drag, un termine che rappresenta trasversalmente tutto ciò che riguarda il travestitismo. Poi, con l’avvento di RuPaul’s Drag Race, spesso si pensa che drag sia solo ciò che richiama la tradizione americana, che ha un certo uso del trucco, nel quale si fanno le spaccate in aria e si mettono le parrucche fucsia. Invece, anche Marsha P. Johnson, che è pure americana, ma che è certamente tutt’altro, è una drag queen. Il mondo drag è molto più inclusivo di quello che spesso sembra, anche io a volte avverto questa pressione, quando mi dicono che non faccio la drag, ma sono solo ‘femminile’. Io rispondo che non ho bisogno del cemento in faccia perché sono già bella così, non ho bisogno della parrucca perché i capelli li ho e non ho bisogno delle imbottiture, perché il culo ce l’ho, lo so, ma io sono una drag queen. Siamo noi del mondo drag, che, anche cercando di essere inclusivi, facciamo un cattivo uso dei termini. Non mi spaventano le etichette, perché io non mi faccio etichettare da nessuno, faccio quello che faccio”. In fondo drag è chi trascina le persone verso un discorso estetico che, nella sua unicità, riesce a parlare trasversalmente ad una platea di desiderio e libertà, trascendendo i sessi in un’estetica visionaria.
Vincenzo ha uno sguardo che ammalia, proprio come la Mangano nell’Ulisse di Mario Camerini. Cerchi di figurarti il suo volto, per capire cosa ti suggerisca e ti vengono restituite dolcissime nostalgie di una creatura adagiata su un letto comodo, di una stanza tappezzata di foto antiche di attori, santi, papi e avventori, una creatura circondata dall’affetto di Teresa la tedesca, che ama un carcerato, mentre dalla finestra si vede la grande cupola di piazza del Plebiscito. Potrebbero essere le scale a vortice di Napoli Velata, invece ce l’ho davanti agli occhi, distesa, come un grappolo d’uva matura su un piatto, con gli occhi grandi, questa creatura, le labbra serrate tra uno spasmo e la parola, la maglietta fina di cotone nero e poco altro. Se dovessi figurarmi oggi Bellezza Orsini direi che è Vincenzo D’Ambrosio, memoria di carne e fiamme, le sue memorie scritte su un quadernetto nero, cucito in un faldone dentro un vestito lungo e semplice.
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Vincenzo è caos calmo che scorre liquido tra le pieghe di un abito di THE ATTICO: “Il mio retroterra culturale è paesano, sono nato a Napoli e cresciuto a Frattaminore, un paesino estremamente tranquillo, dove non succede mai nulla, sono napoletano. La mia è una famiglia con tante cugine e cugini, ho una sorella più grande che è bella e intelligente e che mi ha molto influenzato. Da piccolo, infatti, mia sorella e mia madre sono state i miei riferimenti primari. Ho sempre manifestato la mia femminilità in pieno, sin dai miei primissimi anni, ho sempre avuto coscienza di ciò che sono. Avevo grande affinità con le donne, infatti frequentavo praticamente solo donne.
Sono cresciuto ascoltando la musica dei miei genitori, mio padre ama moltissimo la musica classica napoletana, mentre mia madre è ossessionata da Renato Zero, Adriano Celentano, Mia Martini, Loredana Bertè, Raffaella Carrà. Ricordo che ogni lunedì sera guardavamo insieme Carramba Che Sorpresa! ed io aspettavo il momento dell’apertura del numero fortunato coi Carramba Boys, per poi rifarlo a Pasqua, con la sorpresa che si trova nell’uovo di cioccolata, quasi mettendo in scena quel momento, fingendo che fosse la sfera di cristallo della Carrà. Ecco, i miei riferimenti erano pop e rassicuranti, cercavo nelle pieghe della normalità la mia queerness.
Da piccolo, forse alle elementari, avevo questa cotta per un compagnetto di banco, Fabio. Crescendo in una famiglia cattolica, in una società imbevuta di valori cattolici, il mio desiderio di dare un bacino a Fabio ha fatto scaturire in me un certo senso di colpa. Cosa che mi sono trascinato dietro per molto tempo, anche se nel mio mondo non c’è mai stata la necessità di dare delle spiegazioni, delle definizioni. Per esempio, quando lavoravo a Napoli come cubista, non mi sono mai chiesto se la serata fosse gay friendly, straight o solo gay. Lavoravo e ballavo per una serata e basta e la gente mi corteggiava a prescindere. Vengo da una cultura aperta, una cultura di femminielli”.
I femminielli sono degli uomini che hanno un’espressività femminile, popolare, ancestrale, che parla di costume e usi partenopei, un fenomeno prettamente napoletano. “Le primissime figure pubbliche di travestiti sono nate a Napoli. Sono cresciuto con le Coccinelle, che sono un gruppo storico di femminielli e donne trans, che, sin dagli anni ’90, si esibiscono con canzoni napoletane in battesimi, matrimoni, feste ed eventi in genere, penso si possa definire la prima vera forma di intrattenimento queer e pop in Italia”.
Vincenzo è estremamente legato a Napoli, pensando a lui in questi giorni mi tornavano in mente due brani, Passione Eterna di Valentina Stella, un brano che parla di una forza femminile esondante, viscerale, un pezzo che riesce a parlare a tutti, orizzontalmente, di un amore che non può fare prigionieri, perché uccide di baci e lacrime tumide, e poi Reginella nella versione di Roberto Murolo, uno standard della canzone napoletana, che in pochi accordi di voce e chitarra fornisce una visione della complessa felicità che esprime la città di Napoli.
“Ci sono persone che mi dicono che esagero a parlare di Napoli e di femminielli, come se non ci fosse altro da raccontare, ma io ora non voglio raccontare altro. Vengo da una città che per anni è stata vittima di un discorso sbagliato dei media: siamo stati discriminati. Io non voglio che tu sappia semplicemente di Napoli, io voglio che tu sia pieno di Napoli. La mia missione attuale è portare all’attenzione di tutti le storie di Napoli. Trovo affascinante contestualizzare qualcosa a qualcuno, raccontare una storia, trasmetterla, un’azione che significa anche restituire delle suggestioni, è così che il mio personaggio finisce per essere accostato e riconosciuto anche in cose che parlano di storie simili ma distinte, finendo per universalizzarsi.
Spesso mi viene detto che Ambrosia viene rivista in una Malena di Tornatore o in alcune donne dannate di Brass. Il mio personaggio, più che essere costruttivo, è narrativo, mette in scena una storia, racconta una realtà. Ambrosia è figlia del capitalismo patriarcale, racconta una vicenda corrotta, lanciando messaggi: il mio contesto è una sensualità che dà voce alle vittime del patriarcato ed è così che io combatto il patriarcato: mostrandolo senza veli, senza alcuna istanza del politicamente corretto”.
Vincenzo D’Ambrosio come Ambrosia è resident drag a La Boum di Milano, uno dei venerdì queer più rilevanti del panorama nazionale. “Quando sono arrivato a Milano, a 23 anni, ho cominciato a studiare fotografia. Per cercare di mantenermi ho mandato il curriculum da fotografo a La Boum. Ho fatto qualche serata e poi ricordo che dopo pochissimo tempo mi ritrovai a fare un provino come drag. Andai e scegliemmo insieme il mio nome drag, perché prima semplicemente ballavo, senza etichette, e così venne fuori Ambrosia. Al mio debutto mi esibii ne L’Appuntamento di Ornella Vanoni, la serata era dedicata a Sanremo”.
Presto Ambrosia si afferma nel panorama drag milanese e Vincenzo costruisce ed evolve le sue performance, modellando un personaggio sulla base delle sue esperienze: “A Napoli avevo uno spirito diverso, ero un’entità ispirata da Marilyn Manson e Frank-N-Furter di The Rocky Horror Picture Show, con queste Creepers alte alte, le calze a rete bucate, i guanti in pelle. Invece, a Milano ho cominciato a mettere i tacchi a spillo – io ho un 42 e prima non trovavo la misura, così mettevo ‘sti tacchi 39, li bucavo dietro e mettevo tante calze sopra, così da restare in piedi – il mio personaggio a Milano iniziò ispirandosi agli iconici Balenciaga boots, con delle calze lunghe di colori diversi.
Una performance in cui venne giù La Boum fu per una serata che si chiamava Il bello delle donne, dovevamo mostrare la nostra femminilità ed io portai It’s A Man’s Man’s Man’s World, vestito da uomo e con due bodyguard, finendo con un corsetto ed una gigantesca standing ovation. Col tempo, difatti, è uscito più fuori l’aspetto sensuale del mio personaggio: indosso perizomi e corsetto, culotte anni ’50 e reggicalze, crocifissi, rosario, merletto nero, tutto ciò che richiama la donna napoletana sexy. Guardo molto a grandi attori come Leopoldo Mastelloni e Ciro Cascina. Io sono la Malafemmena di Totò, una donna che ti ruba il cuore e ti vende un sogno, che ti vende menzogne facendoti innamorare, senza darti in fondo nulla”.
Ambrosia è un personaggio che ha come proprio baricentro una forza ammaliante.
“In serata amo sedurre: lo scopo delle mie performance è proprio sedurre gli uomini, essere femminile. Io sto seduta, ti guardo e ti stendo. Ognuno porta il proprio bagaglio di esperienze e viene ispirato dal suo percorso. Sul palco si portano i propri traumi, le proprie certezze, le proprie forze come le proprie debolezze. Il mio personaggio è molto influenzato dalla mia vita passata a Napoli e particolarmente dalle mie debolezze. Sono stato ispirato da piccolo, avendo un senso di colpa cattolico, da riferimenti come Renato Zero e David Bowie, che manifestavano una certa ambiguità, senza farmi correre il rischio di espormi, ho scelto la strada più facile per venire fuori. Sono cresciuto con la paura di essere giudicato, però nessuno ha mai avuto potere sul mio corpo. Penso di essere una persona diplomatica, la mia amica Greta dice che sono un’idealista, ritengo importante la calma ed il confronto, la conversazione, il discorso, quando avevo problemi da piccolo ho sempre provato piacere nel dialogare. Mi affascina l’idea di sedurre, col corpo e con le parole”.
Una delle cose che in questa brutta stagione domestica, vissuta sotto Covid, mi ha molto colpito, è stato l’alacre impegno professato da Vincenzo nel farsi portavoce e nell’impegnarsi in prima persona in discussioni in special modo sulla condizione delle persone trans in Italia, ma anche LGBT+ in genere, sulla queer culture italiana, come anche su temi più leggeri, dialogando, nelle sue dirette Instagram, con persone che hanno da dire sempre parole importanti. Persone come La Persia, Greta La Medica, Lea T., Giangi Giordano, Riccardo Conti, Angel McQueen, Stella Carta, Bia Barra.
“Il mio personaggio in questo periodo è diventato molto più umano. Mi sono aperto alle persone, prima ero più riservato anche perché questo rifletteva i traumi della mia infanzia, la difficoltà di fidarsi. Ero la prima a salire sul palco e l’ultima a scendere, di modo da avere meno contatti col pubblico, perché avevo tanta paura delle persone. In quest’ultimo periodo di emergenza Covid ho cominciato a parlare tanto attraverso le dirette di Instagram, affrontando temi che ritengo importanti, portando avanti le battaglie in cui credo. Prima dell’emergenza ero invece una figura che parlava poco, usavo prevalentemente il body language.
Ho sempre fatto del mio corpo il mio mezzo di espressione, col corpo penso si possa fare arte e politica. Penso di essere magnetico quando sono sul palco, ho bisogno di essere guardato e di ipnotizzare le persone. Ambrosia è un’entità, uno spirito, che esce da dentro di me e che non riesco a controllare, e viene fuori da un po’ di BB Cream, un filo di eyeliner, un’ombra di rossetto e via. Mi esprimo al meglio quando sono nudo: spogliato da ogni artefatto e finzione, quanto più sono io, quanto più mi sento me stesso, tanto più riesco ad esprimermi. Arrivato il Covid è arrivato uno schiaffo della realtà che nessuno si aspettava e mi ha fatto riflettere. Ho provato a fermarmi e a ragionare un po’”.
Vincenzo si divide tra Milano e Napoli, lavora spesso come fotografo per i-D Italia e ha collaborato con brand come Gucci e GCDS: “Non posso che ringraziare tutte le persone che ho conosciuto a Milano e non posso che dire che Milano mi ha dato tanto, pur sapendo che ciò che sono viene da Napoli, non ho mai avuto sogni, ma ho sempre creduto in me. Diventare popolare non è una mia priorità, il mio obiettivo è lasciare tracce, essere importante per la vita delle persone, magari portando avanti i valori in cui credo. Il mio mezzo, i miei social, il mio corpo, voglio che siano uno strumento per sostenere le cause in cui credo, penso che avendo visibilità abbiamo delle responsabilità importanti. Mia madre avrebbe voluto che lavorassi alle Poste, io penso che le cose che facciamo nei club lascino una traccia nella cultura popolare delle nostre città. Recentemente, sotto Natale, ad un party che si chiama Club Venus e che si fa qui a Napoli, abbiamo ricreato una sorta di processione e sono entrata nel club come una Madonna. Queste cose credo che dicano tanto poi anche di come il sud d’Italia sia spesso avanguardistico e di come qui si cerchi di alzare la qualità dell’intrattenimento sempre più in alto. Le persone che lavorano nei club sono persone che vivono di notte e sognano di giorno”.
Al cor gentil rempaira sempre amore.
Nota off:
Ho avuto modo di chiacchierare per tre ore buone con Vincenzo D’Ambrosio ed è stata un’esperienza intensa, in cui mi sono sentito donare il cuore, vendere un sogno, ammaliare, finanche sedurre. Di Vincenzo restano delle parole di una cara e celeste nostalgia, di una fragilità sensuale, carezze immaginate tra un sospiro ed uno sguardo dritto in camera, come se fosse amore. È stato difficile riordinare le idee ed inserirsi perché quando si viene immersi in un bagno di tulipani la sensazione che rimane è quella di dover maneggiare l’arte del sogno, più che la logica del discorso.
E le carezze difficilmente si lasciano mettere ordinatamente in fila, difficilmente sono comprensibili a tutti. Di Vincenzo posso dire che basta posare lo sguardo per un’istante sulla sua figura per vedere uno scorcio di Napoli, una passione infiammata ed il cuore rosso di un santo, racchiuso nella teca di una chiesa barocca su Spaccanapoli, è Ambrosia che cola via da una bocca baciata e di cui non resta che una figura femminile, vestita di un abito nero, che le fascia i fianchi, una retina di pizzo nero a tenerle in ordine i capelli e scarpe classiche con un tacco basso e largo ed una piccola fibbia d’acciaio sul davanti, una figura che si allontana ancheggiando, senza restituire alcuno sguardo, ma aprendosi un varco nella folla immaginaria della strada polverosa di un paesino campano.
Se poi volete capire fino in fondo la forza e la caparbietà di Vincenzo, guardate Stefania Sandrelli diretta da Pietro Germi in Sedotta e Abbandonata e capirete che il senso delle cose si sviluppa nelle grandi contraddizioni del nostro tempo.