πρόλογος
Quando mi è stato chiesto di scrivere per nofunzine.it, e poi di occuparmi di Nightclubbing, ho accettato con grande gioia, in quanto questa occupazione, aspettando che si risolvano i problemi causati dall’emergenza Covid-19, mi dà modo di coltivare la mia modesta velleità per la scrittura e allo stesso tempo di impegnarmi in qualcosa legato all’essere un DJ.
Col passare del tempo sono arrivate notizie sempre più frammentarie e contrastanti, ad oggi il ritorno delle discoteche sembra lontano, ostacolato, reso impossibile.
Quello che si fa nelle discoteche è cultura, esattamente come e quanto il teatro ed il cinema, le discoteche offrono un’occasione di socialità irrinunciabile, danno lavoro a migliaia di persone dedite ad un’occupazione onesta, sono casa della musica e dell’arte, del desiderio e della leggerezza, di idee politiche e di nuove avanguardie dello spirito e del corpo:
Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo quod procedit de ore Dei.
Questa rubrica prende vita dal desiderio di raccontare la notte ed i club attraverso le persone che li animano. Penso che Palermo (la mia città) sia, poi, un ossario dell’intrattenimento europeo: la cenere è nutrimento, dalla polvere nasce la vita. Palermo con le sue pigrizie, con i suoi anfratti mistici, con la sua miseria e la sua bellezza, racconta cosa siamo e cosa siamo stati.
Speravo che questa potesse essere l’ultima uscita di Nightclubbing da me scritta perché mi auguravo che entro metà giugno sarei tornato in discoteca, mi sbagliavo.
Continuerò a tediarvi per un po’, fino a quando non riprenderemo a mettere musica.
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Nota On:
I luoghi parlano alle persone che tendono l’orecchio per ascoltare. Le pietre che calpestiamo sono parti di tempo che raccontano chi siamo. Via dello Spasimo è una strada tutto sommato dimenticata, che se ne sale per i fatti suoi, dritta dritta, salendo da piazza Kalsa, quadrato di mare, centro decentrato del luogo in cui Pupi Avati, passeggiando, mi disse che c’avrebbe volentieri girato un film in quel quartiere di picciotti e di figli di professionisti coi loro appartamenti con le travi a vista sui tetti.
Via dello Spasimo offre subito il fianco di Santa Teresa alla Kalsa, al Khalisa, la pura. Proseguendo verso piazza Magione, si palesa il culo dell’Abatellis, annunciato da un enorme graffito del Trionfo della Morte, un graffio sulle mura sventrate di un palazzo bombardato, e poi, dopo piazza Vittoria allo Spasimo, che, salvo il nome, è uno sterrato in cui si parcheggia, ed in cui per anni ha riposato una vecchia Fiat 500 sottosopra, di fronte ad un muretto pitturato di buone intenzioni, si staglia l’Oratorio dei Bianchi, dove riposano stucchi serpottiani coricati e dove si organizzano boutade comunali, dove, sopra ogni santità, per anni ha campeggiato serena la munnizza (immondizia).
Via dello Spasimo sale poi ancora e mostra piccoli capolavori socialisti: palazzi brutti ai cui fianchi sono spuntati da poco enormi pitture engagées, di fronte alle quali casupole basse coprono una gentrificazione ulteriore, La Fabbrica del Pomodoro, per arrivare finalmente al suo toponimo: lo Spasimo.
Lo Spasimo è il luogo più bello di Palermo e siccome Palermo è uno dei luoghi più belli del mondo, lo Spasimo deve essere, a sua volta, uno dei luoghi più incantevoli della terra. Allo Spasimo nasce l’amore. In quel luogo puoi vedere un ragazzo entrare come fosse un quadro di Guttuso e attraversare l’atrio fresco con la sua fontana da paesino rurale, per poi gettarsi, come danzasse a piedi scalzi sull’erba (come suona meglio in inglese dancing barefoot), in una basilica che non è una basilica, senza tetto, una volta bucata da un albero, fino a lasciarsi cadere per terra, sui tavoloni di legno sotto l’abside, chiudendo gli occhi.
L’albero dentro lo Spasimo non c’è più e anche se quell’albero è morto, vivrà per sempre nei cuori di chi l’ha accarezzato con lo sguardo, mentre tagliava quello spazio mistico: metà rivolto dentro la città, così moralmente misera e così ricca di vita; metà al di là della città, al suo cuore pieno, che sta nel passato e che è morto per sempre, ma che resta vigilie ad osservarci.
Non è solo un albero che è andato via qualche settimana fa, ma nell’emergenza è andata via un pezzo della nostra umanità, nel tempo rarefatto, così lo Spasimo termina il racconto di uno spazio, per questo è sicuramente il luogo più importante e più bello di Palermo, perché ci parla sempre. Un luogo che continuiamo a sottovalutare e verso il quale tutti dovremmo migrare per ritrovarci un po’ più a contatto con ciò che l’uomo è capace di fare quando empatizza con l’ambiente e quando vive senza occhi al presente, tutto gettato nel futuro “l’uomo è nella condizione dell’essere-gettato.
Ciò significa che l’uomo, come e-sistente controgetto dell’essere, è più che animal-rationale proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo «meno» l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità”.
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Il mio maestro, vive di fronte lo Spasimo, lo stesso vento che accarezza quelle pietre, lo trova spettinato la mattina: la faccia gonfia, gli abiti fast fashion, gli occhiali scioccamente alla moda, la barbe de deux jours à la Gainsbourg. Gli occhi di mio fratello sono vetro spezzato d’inverno e ricomposto con la neve e col compasso. “Sono uno dei più vecchi di tutti, di tutti quelli che sono nella notte, nello spettacolo, nell’intrattenimento. Della generazione degli anni ’90 sono probabilmente l’unico, della generazione degli anni ’00 uno dei pochi”, dice.
Palermo è il centro del mondo, capitale di se stessa. Marco Agnello viene da una famiglia di commercianti, è cresciuto nei quartieri nuovi di una città che negli anni ’80 era una saracinesca elettrica che si andava alzando sempre di più e che poi si è bloccata: “Dopo il liceo, a 19-20 anni, ho affrontato per la prima volta la depressione. Un giorno ho messo piede nel primo, e credo unico, laser game della città, e ne sono rimasto affascinato, nel 1996 era qualcosa di mai visto, avanguardistico, un universo cyberpunk, oscuro, labirintiaco. Dopo un mese ci lavoravo. Dopo un anno l’ho comprato. Ho ridisegnato il labirinto e cambiato le musiche della sala d’ingresso e del labirinto di gioco, lì dentro si potevano ascoltare i Radiohead, Marylin Manson, i Subsonica, i Bluvertigo, Fatboy Slim, i Prodigy, i NOFX, i Garbage, i Placebo. Ok Computer dei Radiohead ha cambiato tutto, ha fatto intravedere quello che sarebbe successo anni dopo, un mondo iper-connesso, iper-tecnologico. Al laser game ho creato il modello di lavoro che mi ha accompagnato per anni: un’azienda familiare. Quel luogo è stato, dal 1996 al 2002, un crocevia di personaggi ed artisti bizzarri, di freak, di persone libere di testa e di corpo”.
Nel 2002 Marco viene colpito da un’altra depressione, un male terribile che è la peste del genio, la forca che cerca nella paglia secca l’anello d’oro, tormentando chi vuole poi solo riposare: “Mi sentivo sottoterra, così ho ceduto il laser game. Qualche tempo dopo, mio cognato mi ha indicato un piccolo pub in vendita. Si trovava in via dei Chiavettieri. In quel momento non c’era niente in quella stradina: una bottega di frutta e verdura, un ristorantino ed un panificio. Nient’altro. Visito il pub che mi restituisce una buona vibrazione. Allora ne parlo in casa e scopro che in quella strada è nato e cresciuto mio padre. Decido di occuparmi del posto”.
Oggi via dei Chiavettieri vive la coda di due decenni di bevute sonnambule, vent’anni di festa no-stop e libertà, via dei Chiavettieri è l’ultimo mignolo della Vucciria, un brulicare di localini che continua a bruciare come una chiazza di petrolio nel mare.
“Presi il pub e ne feci un piccolo gioiellino di design, la cui concezione era il frutto di un mio breve soggiorno londinese. Lo chiamai Nero. Era una minuscola club house formata da due stanzette, una la feci pitturare di verde con una striscia bianca al centro, come lo studio di MTV Brand New, qualche settimana dopo passò di lì per caso Massimo Coppola (il conduttore di Brand New) e ovviamente rimase stupito dal tutto. Sentii che stavo facendo bene”.
Il Nero è uno di quei luoghi che rimane nella memoria collettiva di chi ha vissuto la notte di Palermo, nonostante poi la sua stagione sia stata breve. “Sono diventato palermitano al Nero, ho scoperto una città in conflitto col suo degrado, una città viva. Il locale ha contribuito a dare il la alla presenza di numerose attività nella zona. Facevamo di tutto: letture, happening, mostre, djset. Era una piccola Factory. Veniva chiunque, dal bottegaio della Vucciria all’artista, dal professore universitario al suo studente. Al locale ho incontrato due persone che mi hanno cambiato la vita, si sa che i pazzi tra di loro si riconoscono. Al Nero ho conosciuto Simone Vesco, ci siamo cosmicamente innamorati subito (anche se detestiamo toccarci), e poi Federico Diliberto Paulsen, uno dei DJ che amo di più in assoluto.
Ricordo che con Federico al Nero portammo la consolle sul bancone del bar, dando al DJ la possibilità di essere pienamente visto dagli avventori del locale, all’epoca non era una cosa comune. Significò cambiare lo spazio fisico della musica. Il Nero era un salotto sospeso dentro l’internazionale dell’intrattenimento, un film romantico che, dopo poco, dovette chiudere”.
Le rivoluzioni sono processi circolari continui, percorsi costellati di azioni che diventano poi paradigmi nuovi, che col tempo subiranno nuove rivoluzioni venendo spazzati via. “Simone Vesco mi chiamò e andammo a vedere una discoteca, il vecchio Noctis, che era stata una gloria delle notti in città negli anni ’80 e ’90. Incontrammo il proprietario, Salvatore Principe, ci mettemmo d’accordo e cominciammo a lavorarci. Salvatore Principe è una di quelle persone che mi hanno insegnato tanto e che mi sento di poter chiamare maestro. Portammo lo spirito del Nero in grande dentro il Noctis, che fu ribattezzato da Simone Zsa Zsa, c’era sicuramente un riferimento a Zsa Zsa Gabor che ora mi sfugge.
La struttura era molto bella, aveva qualcosa di pop, ma anche di inespresso. Tingemmo il locale di verde acido e magenta, entrarci era un’esperienza intensa. Installammo due videoproiettori piuttosto potenti, così da illuminarlo interamente, all’epoca era una cosa che in città non aveva nessuno. C’erano attorno a due nicchie dentro il locale sedici metri lineari di specchi, una mia amica fotografa, Claudia Cammarata, mi aveva donato la foto di un angelo piangente scattata in un cimitero a Bruxelles, ne feci fare una riproduzione di due metri per sedici nei sette colori dell’arcobaleno che misi sugli specchi, doveva essere chiaro a tutti che quel locale era gay friendly. Col tempo ho capito che quando si palesano certe opportunità, scaturisce una forza che definirei la magia del fare, quando le cose stanno andando nel verso giusto il mondo te lo dice chiaramente”.
Le notti dello Zsa Zsa furono notti leggendarie.“Funzionava quasi sempre così: c’era un live prima e poi il djset di Federico Diliberto Paulsen. Ospitammo Caparezza, i Verdena, i Meganoidi, i Prozac+, Alberto Camerini e tanti altri. Era un periodo di grandi concerti. Andammo avanti per due anni e fu molto bello. Poi la stanchezza ci travolse e ci fermammo per un anno. Ripresi l’attività organizzando una festa, che si faceva una volta al mese e che per questo chiamammo One Shot. Era centrata sulla musica di Federico, c’era un’atmosfera da nani e ballerine, da freak, usando un termine in voga all’epoca, i primi anni ’00, era una festa percepita come trasgressiva.
Il One Shot fu un evento che per dieci anni pieni, dal 2003 al 2013, dettò l’agenda dell’intrattenimento cittadino imponendo uno stile colto ma inclusivo, era l’espressione massima della cultura popolare dell’epoca, dentro ci sentivi i Vive la Fête ma anche Britney Spears. La festa era come un contenitore televisivo con un tema che veniva realizzato con un’enorme scenografia”.
Nel frattempo Marco continua a lavorare a tanti altri progetti, incontra tanta gente, è instancabile: “Negli anni poi, in realtà, non mi sono mai fermato, accanto al primo biennio dello Zsa Zsa, ed alla stagione del One Shot, affiancai cose come Radio Atari, il Boom Boom Clan, Sereno Variabile. Tutti format che rispondevano ad una forte domanda di pubblico: dieci, quindici anni fa, si lavorava dal martedì alla domenica. La cosa mi diede modo di incontrare gente fantastica, volti storici del djing cittadino, e soprattutto Nunzio Borino, un amico carissimo col quale continuo a collaborare ancora oggi per quelle che sono le feste più importanti dell’anno, anche per la sua presenza. Nunzio non è sostituibile, è uno dei pochi che con la sua musica, col suo carisma, parla a tutti”.
Nel 2013 si chiude l’esperienza del One Shot e Marco decide di creare un altro progetto. “Il One Shot era un grande esercizio di democrazia, era un collettivo a concordare il format della festa, mese dopo mese, io però sentivo di poter esprimere delle potenzialità inesplorate, decisi di voler prendere il toro per le corna. Corteggiavo musicalmente da mesi Marco Basciano, che ero riuscito a fare suonare anche una volta al One Shot, quando I Candelai si trovò improvvisamente a metà stagione col sabato scoperto. Fabio Schillaci mi chiese di occuparmene. Sentii Basciano per telefono e gli proposi di fare insieme una nuova festa, io mi sarei occupato del lato organizzativo e lui della musica.
Volevo lavorare con Basciano perché penso che la musica sia la parte centrale di ogni festa e avere Marco in quel momento era come avere oggi Cristiano Ronaldo in squadra, Marco era l’artista che mi serviva per costruire una festa mai vista prima. Il nome a cui pensammo fu The PopShock!. Era un nome che avevo usato una volta per una festa anni prima in cui avevamo messo tre postazioni consolle che si guardavano ed era un nome che continuava a ronzarmi in testa.
Basciano divise la consolle con Francesco Ferragina, che era stato uno dei dj cardine, con Davide Greco, del One Shot nonché mio sodale in moltissime feste di successo, contattammo, poi, per completare la consolle Giorgio Lo Bosco, che aggiunse alla festa la sua elettronica elegante e potente. Mettemmo assieme uno staff di 30 persone, volevamo fare le cose in grande. Ho sempre fatto le cose per amore e l’amore mi venne in aiuto. La prima sera ancora a mezzanotte non c’era nessuno. Fui stretto in un abbraccio e rassicurato ‘andrà bene’, erano parole che suonavano diversamente dieci anni fa”.
The PopShock! è stato uno modello, una macchina da guerra, dell’intrattenimento nazionale che ha dato l’assalto ad ogni evento nel quale si poteva posizionare una festa di successo. “Aprivamo alle 22.30, poi a mezzanotte si faceva passerella sul palco coi fotografi, il palco era una scenografia 3D, tra i nostri fotografi ci furono, fra gli altri, Paolo Castronovo, Alberto Alicata ed Adriana Tedeschi, professionisti incredibili che sono diventati nomi affermati della fotografia a livello nazionale. All’01 e poi all’01.30 scendevano le nostre performer: la Villalobos, forse una delle figure più avanti del panorama drag italiano, che ha poi proseguito la sua carriera a Barcellona; e la Mik, uno dei prospetti drag più interessanti di sempre, un po’ cartoon, un po’ dreamy.
Poi la serata continuava con una caratterizzazione del tema che era sempre un’esplosione di follie, di luci, di colori, dei trucchi di Claudia Ruvolo, di trovate, a seconda di quello che ci suggerivano la testa ed il cuore. C’era poi Dario Denso, uno scultore, che si occupava di mapping e che costruì per The PopShock! una struttura cubica enorme che riempiva di tutto ciò che gli suggeriva il suo immaginario.
Abbiamo riempito per 5 anni meravigliosi il club più bello di Palermo I Candelai, ogni sabato, abbiamo fatto feste al Cefalù Wave, al Foro Italico di Palermo, al Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo, abbiamo fatto feste per la Palermo Tattoo Convention e per il Pride. Sono fiero di quello che siamo stati, dopo anni la festa ha detto tutto e per il momento siamo in pausa. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare e poi molte cose rimangono sepolte sottoterra ma con una piccola fiammella accesa, non si sa mai cosa può accadere domani”.
Marco si è occupato per quasi dieci anni anche delle feste del Palermo Pride: “Negli ultimi anni, grazie a Luigi Carollo, mi sono ristorato all’ombra magenta, meravigliosa, glitterata del Pride, che è fucina di incontri splendidi e latore di decine e decine di migliaia di ore di lavoro. Per me è un atto d’amore verso le persone LGBT, io sono gay e sento il dovere di occuparmi di Pride, facendo quello che so fare: feste. Ma non sempre, perché non sono un uomo per tutte le stagioni. Su dieci anni, però, mi pare che in nove ho dato il mio contributo!”.
Chiusa la stagione di The PopShock! Marco si getta a capofitto in una nuova avventura: “Sento i rumors di una festa, che credo possa coprire un vuoto, rispondere ad un’esigenza, che mi ricorda le intenzioni che muovevano il One Shot. Una festa pienamente queer, che ancora a Palermo non c’era. Sento parlare di Party Nudo, sento che il party ha l’energia giusta. Dopo qualche peripezia, incontro i ragazzi di PN e gli propongo di entrare a I Candelai. Sono un party designer, faccio accadere le cose. Per amore perdo l’esordio del party, a fine maggio, mentre da settembre 2018, con l’esordio ospitando MYSS KETA, cominciano due stagioni divertentissime, che hanno visto le collaborazioni con Nunzio Borino per le feste di capodanno e con Marco Basciano per le feste Pride, in quella grande incubatrice che sono I Candelai, della cui grande famiglia mi onoro di fare parte”.
Alla fine cos’è Marco Agnello se non il suo cuore, un ex voto composto di un’energia travolgente che oscilla come un pendolo nella storia della notte. “Agli amici dico che nel corso degli anni ho lavorato con centinaia di DJ, P.R., organizzazioni, impresari ed artisti di ogni genere. So che non posso citarli tutti e di questo mi scuso. Al pubblico dico che per fare cose grandi ci vogliono anime fragili. La depressione è la madre di ogni spettacolo e gli artisti, Dio mi onori di farne parte un giorno, farebbero di tutto per strapparvi un sorriso: amateci e lasciateci l’enorme privilegio di intrattenere”.
Nota Off:
Alcuni incontri cambiano le sorti della nostra vita. Avrei potuto, ad oggi, essere in Francia, avere un lavoro diurno ordinario, tanto stress, invece mi ritrovo tornato a Palermo, a casa, con tante cose da accarezzare, cose che magari non accadranno più, ma che mi cullano nel delirio onirico di notti in cui sogno ad occhi aperti di baci, di corpi, di principi, di tempo speso a fantasticare, di animali notturni che fendono l’aria come fiere selvagge braccate. Marco ha fatto accadere tutto ciò, ha dato la spinta giusta al momento giusto, ha attivato le energie che mi hanno portato via dal grigio, da Eros e da Priapo, verso un Pasto Nudo fatto di vermi, di ventri molli e pistole.
Vorrei avere la capacità di piegarmi e sopravvivere e vorrei essere struggente come l’incipit di Aurélien, ma invece sono più simile a Marco, rivedo nelle sue mani scavate e nei suoi occhi di vetro, d’inverno, quella forza del passato che suggerisce incontri e vite nuove. Marco è quel motivo oltre il pop, ma che del pop ha tutte le qualità, che ti ronza in testa per secoli, Marco è quell’intenzione di parlare alle persone e non a se stessi, Marco è un testimone di un tempo che si contrae in spasmi di piacere tra i potrei dell’oggi ed io posso del passato.
Questo 2020 sarebbe dovuto essere l’anno della gratitudine e non della catastrofe, ancora una volta a Marco vorrei dire: grazie. Grazie per la sua spalla quando ho pianto e grazie per avermi aiutato ad alzare le mura che fanno in modo che la mia felicità di adolescente si eroda più lentamente, l’ultima Thule.
“La première fois qu’Aurélien vit Bérénice, il la trouva franchement laide. Elle lui déplut, enfin. Il n’aima pas comment elle était habillée. Une étoffe qu’il n’aurait pas choisie. Il avait des idées sur les étoffes. Une étoffe qu’il avait vue sur plusieurs femmes. Cela lui fit mal augurer de celle-ci qui portait un nom de princesse d’Orient sans avoir l’air de se considérer dans l’obligation d’avoir du goût. Ses cheveux étaient ternes ce jour-là, mal tenus. Les cheveux coupés, ça demande des soins constants. Aurélien n’aurait pas pu dire si elle était blonde ou brune. Il l’avait mal regardée. Il lui en demeurait une impression vague, générale, d’ennui et d’irritation. Il se demanda même pourquoi. C’était disproportionné. Plutôt petite, pâle, je crois… Qu’elle se fût appelée Jeanne ou Marie, il n’y aurait pas repensé, après coup. Mais Bérénice. Drôle de superstition. Voilà bien ce qui l’irritait.
Il y avait un vers de Racine que ça lui remettait dans la tête, un vers qui l’avait hanté pendant la guerre, dans les tranchées, et plus tard démobilisé. Un vers qu’il ne trouvait même pas un beau vers, ou enfin dont la beauté lui semblait douteuse, inexplicable, mais qui l’avait obsédé, qui l’obsédait encore :
Je demeurai longtemps errant dans Césarée…
En général, les vers, lui… Mais celui-ci lui revenait et revenait. Pourquoi ? c’est ce qu’il ne s’expliquait pas. Tout à fait indépendamment de l’histoire de Bérénice… l’autre, la vraie… D’ailleurs il ne se rappelait que dans ses grandes lignes cette romance, cette scie. Brune alors, la Bérénice de la tragédie. Césarée, c’est du côté d’Antioche, de Beyrouth. Territoire sous mandat. Assez moricaude, même, des bracelets en veux-tu en voilà, et des tas de chichis, de voiles. Césarée… un beau nom pour une ville. Ou pour une femme. Un beau nom en tout cas. Césarée… Je demeurai longtemps… je deviens gâteux. Impossible de se souvenir : comment s’appelait-il, le type qui disait ça, une espèce de grand bougre ravagé, mélancolique, flemmard, avec des yeux de charbon, la malaria… qui avait attendu pour se déclarer que Bérénice fût sur le point de se mettre en ménage, à Rome, avec un bellâtre potelé, ayant l’air d’un marchand de tissus qui fait l’article, à la manière dont il portait la toge. Tite. Sans rire. Tite.”