Capita spesso di imbattersi in artisti dall’intensità espressiva incandescente, estranea ad ogni compromesso, fagocitata quasi da un temperamento facilmente equivocabile. Non tutti i musicisti ritengono il loro estro soltanto predisposto a una mera trasmissione di semplici emozioni; a volte, la volontà è estesa oltre lo sguardo ed è necessario quell’elemento discordante che segna la differenza. Ecco, forse, che il senso di una carriera riflette la volontà di divenire traccia artistica pulsante e permanente. Micah P. Hinson appartiene ad una vera e propria minoranza musicale, in cui sembra quasi esserci la prospettiva di un’altezza artistica che può apparire autoreferenziale, ma che, in realtà, porta con sé caratteri solidali ed è dono di tutti. Il peso delle cose, le ferite personali, così come uno stile pacato e dai toni raffinati, sia nelle tonalità vocali sia nell’impatto armonico, rendono Hinson un artista che sa distinguersi più per talento che per strategia. Il suo afflato, carico di spirito e cuore, naviga lentamente sulle gradazioni dell’umano, ponendosi in una dimensione melodica imperniata sulla riflessione e sul dubbio. Micah P. Hinson è un menestrello perfettamente ancorato al tempo presente, un’immagine musicale contemporanea che si è sempre mantenuta su un folk atipico, dissonante e cupo, troppo distante da un solo genere, diramandosi in un cantautorato eterogeneo nelle sue voci di fondo. Come si può notare anche dall’ultimo lavoro, When I shoot at you with arrows, I Will shoot to destroy you, opera densa di atmosfere contrastanti, si distingue anche una certa determinazione a rincorrere un lo-fi nitido, in cui la voce, a volte corrosa da picchi di distorsione, mette in chiaro le suggestioni generate da ogni storia raccontata. Il percorso seguito in quest’opera muta le strutture degli esordi, di quel Micah P. Hinson and the gospel of progress che costruiva una nuova forma americana di musica d’autore, polverosa e, a volte, austera. Quest’ultimo album, invece, regala una nuova forma di musica dal profondo. L’idea, nata dai ventiquattro anziani scolpiti all’interno della Cattedrale di Santiago de Compostela, che, nell’interpretazione dell’Apocalisse di Giovanni, imbracciano soltanto strumenti musicali, è sufficiente a descrivere il senso dell’opera.
Gli autori dell’album, infatti, vengono indicati come Micah P. Hinson and The Musicians Of The Apocalypse, un gruppo di narratori che intende la musica come unica arma per descrivere una fine del tutto. Diversamente dalle possibili aspettative, Hinson sembra cominciare da una fine, sfrutta i contorni di un terremoto musicale che funga da strumento di osservazione, lente di ingrandimento di una biografia che non porta mai all’autocommiserazione, perché il senso di vitalità dilagante non viene mai ostacolato da ostacoli o barriere per tutta la durata dell’album. Forse un punto di arrivo lo si trova nel tipo di obiettivo raggiunto artisticamente dal musicista texano: una commistione equilibrata fra poesia e musica. È difficile trovare sulla piazza un autore che riesca a costruirsi un suo spazio nella contemporaneità attraverso una poetica non banale e intrisa di una macchina musicale originale e attraente. Al tempo stesso, Hinson, pur mantenendo simili intensità quasi barocche, melodiche entro certi limiti e mai realmente protese a regalare motivi totalmente orecchiabili, diventa accattivante nella sua essenzialità. A differenza di artisti come Sufjan Stevens, in cui la sofferenza si propaga e punta ad un comune denominatore armonico, Hinson non si lascia condizionare, se non in isolati casi, dal chiudere un cerchio con un determinato brano, mantenendo un non detto e un non cantato che rimanda all’interpretazione nell’ascolto, come se l’intento fosse unicamente lasciare soltanto tracce, lampi sonori e letterari che rimangono latenti, ma pronti ed esplodere. In questo teatro di alternanze stilistiche, I am looking for the truth, non a knife in the back mostra tecnicamente questa giostra personale, delineandosi quasi come una canzone di coda, una ninna nanna modulata che termina un lavoro, pur essendo il brano di apertura. In realtà, The sleep of damned è il vero volto di Hinson: un organo sullo sfondo, la voce bassa ma accesa e quella sinergia di accordi in pieno stile americano. Immediatamente dopo, Fuck your wisdom, a stemperare il ritmo, come un racconto notturno intimo da narrare sottovoce. When I shoot at you with arrows, I will shoot to destroy you, title-track dolorosa che materializza una sensibilità marcata e viscerale. Small spaces lascia trasparire un disagio interiore che non cerca alcuna compassione, ma solo una visione condivisa da e con tutti. My blood will call out to you from the ground pone ancora in rilievo questa necessità di equilibrio, in bilico fra ragione e tristezza, scacciando quelle miserie che sembrano rievocare il passato personale: la depressione, l’abbandono e la droga. C’è tanto di autobiografico nella musica di Hinson, come la fuga da Abilene, città texana in cui si è trasferito in adolescenza con la famiglia, pur essendo nato a Memphis. Questo periodo influenza la sua vita e la sua futura arte, quella desolazione mista a immobilismo da lui descritta nelle interviste. L’effetto di questa parte d’America in cui cresce lo contamina e lo rende quello che sarà: un songwriter solitario dalla sensibilità ferita. Le sue storie finiscono per riportare a scenari di una provincia americana arida e abbandonata. La polvere e il silenzio, come nei romanzi di Kent Haruf o di Cormac McCarthy, rievocano un futuro invisibile e dimenticato, mirabilmente osservato e descritto in musica. A differenza degli amici che lo circondano, molti dei quali tossicodipendenti, morti o in galera, Hinson non precipita, ma genera la sua poesia, animando il suo talento nella ricerca di un’intima spiritualità. The skulls of Christ chiude il disco e non sono necessarie parole, nonostante nella parte finale vi sia un coro, quasi a chiudere un rito. La musica e le voci sovrapposte sono una chiara visione del mondo. Hinson riparte dall’apocalisse per trovare una pace tangibile.