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“Sing Backwards and Weep”: Mark Lanegan, nel male e nel bene

By maggio 18, 2020 No Comments

Prendendo in prestito il caro, vecchio espediente della descrizione in soli cinque aggettivi, potremmo subito dire che l’autobiografia di Mark Lanegan, “Sing Backwards and Weeps” è schietta, diretta, cruda, sfacciata e avvincente. E se quell’avvincente sembra fuori luogo, è solo leggendola che lo si può capire. I racconti di decadi trascorse tra eccessi, musica e situazioni spesso ai limiti del paradossale hanno il pregio di scorrere davanti gli occhi come immagini vivide e curate in ogni particolare.

Mark Lanegan, con le parole, ci sa fare, soprattutto quando riguardano qualcosa che lo chiama in causa in prima persona. “Con il cordone ombelicale avvolto al collo, sono nato con un parto cesareo nel novembre del 1964”: questo l’esordio di una narrazione che comincia esattamente dal principio, da una città natale troppo stretta e da una famiglia dai rapporti non esattamente lineari.

Pagina dopo pagina, appare sempre più chiaro che Lanegan non intende fare sconti a nessuno, a cominciare da se stesso. Non lesina sui dettagli più sordidi e perversi, raccontando ogni cosa con grande lucidità: la vita, il sesso, l’amore, il processo creativo, la quotidianità. I vizi e le debolezze, le buone e le cattive azioni, perfino lo squallore. Se quella lucidità, applicata alla sua persona, provoca effetti collaterali tutto sommato ridotti, lo stesso non si può dire quando viene applicata agli altri.

I nomi noti che vengono chiamati in causa sono, come ci si può immaginare, numerosi. Primi tra tutti quegli Screaming Trees, rimasti in attività fino al 2000, di cui Mark è stato il cantante. Gary Lee Conner, il chitarrista, ha affidato a un post di Facebook le sue considerazioni in merito: «Ho letto solo poche pagine del libro (non ce l’ho fatta ad andare avanti) e, sebbene molti dei fatti possano essere accurati, vengono presentati con un livore che mi lascia perplesso. Ho superato i miei problemi e i chiarimenti con Mark molto tempo fa e dissotterrare tutto questo ora, dopo una vita, in una forma così pubblica, sembra cattivo e meschino. Ad ogni modo – ha aggiunto – amo ancora la musica che gli Screaming Trees hanno fatto dall’inizio alla fine della loro carriera».

Di fronte a queste affermazioni viene da chiedersi se le lamentele di Lee Conner siano motivate o meno. La verità, però, è che la risposta non spetta al lettore, cui vengono riservati numerosi aneddoti sugli Screaming Trees, in grado di toccare vette altissime, ma anche il fondo “più profondo”.

Rimanendo in tema querelle, sarebbe ingiusto non citare Liam Gallagher. Lanegan racconta che Liam avrebbe lasciato il tour negli Stati Uniti del 1996 degli Oasis, proprio per evitare una scazzottata con lui, dopo avergliela promessa in più di un’occasione. I due avrebbero litigato dopo che Liam ha chiamato scherzosamente gli Screaming Trees “Howling Branches” (un gioco di parole: da “Alberi Urlanti” a “Rami Ululanti”). La replica di Lanegan è stato un laconico «Vaffanculo, stupido idiota del cazzo» e da lì è nato un rapporto poco idilliaco. Nell’autobiografia, giusto per capire l’andazzo, si legge: “Da dove vengo io, quelli come Liam Gallagher non durano una settimana. A un certo punto semplicemente spariscono, li ritrovano anni dopo fatti a pezzi in qualche fossa nel bosco”. Così Gallagher ha replicato con un tweet, definendo Lanegan un “tossico nervoso senza senso dell’umorismo”.

È davvero importante saperne di più in merito? No.

La narrazione di “Sing Backwards and Weep”, infatti, è molto più interessante dei botta e risposta da social. La parte dedicata al rapporto con Kurt Cobain, ad esempio, offre un profondo spaccato della vita di un musicista andato via troppo presto, confermando in parte quello che si sapeva già sulla sua riservatezza e sul fatto che non si sentisse a proprio agio con tutta quella notorietà arrivata all’improvviso. In quella parte del libro, Lanegan è più che mai consapevole, ma anche critico nei confronti di se stesso, per qualcosa che avrebbe dovuto fare o per qualcos’altro che, invece, avrebbe dovuto evitare.

Di tutt’altro tenore, invece, le pagine in cui si racconta del primo incontro con Josh Homme e di come legare con lui sia stato estremamente facile. Sono davvero interessanti i riferimenti a musicisti e band cari a Lanegan, come Jeffrey Lee Pierce (fondatore dei Gun Club) o Johnny Cash: quando parla di ascolti e dischi, si percepisce una connessione pura e profonda con la musica.

L’autocritica è, probabilmente, la cifra stilistica di questo libro. Non è il ritratto sfavillante di una rockstar ed è questo che lo rende così tanto apprezzabile (oltre a una prosa scorrevole e intrigante). Qui non c’è un eroe (non ce n’è bisogno), ma ci sono molti cattivi. C’è la parte oscura dell’anima, ma anche – da qualche parte – la luce. Fino all’ultima pagina rimane quella sensazione che si prova al cinema, davanti un film molto bello: vorresti non finisse mai o, quantomeno, vorresti saperne di più sui personaggi, sulle loro storie, sulla loro vita, oltre a quello che hai visto. La differenza sta nel fatto che, alla fine di “Sing Backwards and Weep”, ti rendi conto che non possono esserci i titoli di coda – per fortuna.

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