Se esiste un festival in grado di ben rappresentare in questo campo la cultura ancora debole e non radicata nella mentalità degli italiani è il Primavera Sound di Barcellona. Nell’odierno quadro di tremende paure per il presente e incertezze per il futuro, da giorni si moltiplicavano le discussioni sulla scelta del festival spagnolo circa l’edizione del ventennale.
Adesso lo sappiamo, è stato spostato al weekend 26-30 agosto, e ciò in linea con la scelta del Coachella (spostato ad ottobre) e in controtendenza rispetto ai colleghi inglesi (Glastonbury, Isle of Wight, Lovebox, All Point East, Download e via così) tutti cancellati e arrivederci all’anno venturo.
Fino a questo momento, la linea temporale delle decisioni ha riguardato gli eventi programmati a maggio-giugno, nelle prossime settimane, o forse anche meno, il quadro verosimilmente sarà più chiaro anche per gli eventi previsti su luglio-agosto. In Italia il blocco degli spettacoli dal vivo va avanti da febbraio e, finora, solo il Nameless, tra i primi in calendario della nostra stagione estiva, ha annunciato lo spostamento del festival da fine maggio al weekend 27-30 agosto.
Dalla decisione del Primavera sono seguiti numerosissimi commenti riassumibili sostanzialmente in tre categorie:
- Dovevate cancellare; impossibile farlo anche ad agosto, la pandemia non sarà cessata;
- Ci speriamo e non chiederemo rimborso comunque;
- Non andrò, quando rimborsate?
Lasciando perdere le categorie 2 e 3, dettate da legittime ragioni personali sentimentali o economiche, conviene soffermarsi brevemente sulla prima categoria.
I festival, specie i più grandi e al di là dagli aspetti artistici, sono complesse organizzazioni con la pianificazione di ogni servizio per il pubblico al pari di qualsiasi città metropolitana per i propri abitanti. Dietro questi colossi ci sono dunque una miriade di aspetti contrattuali, ma soprattutto ci sono dei lavoratori con le loro legittime aspettative di avere una retribuzione per la tanta opera prestata, perché un festival, come Roma, non si costruisce in un sol giorno.
Anche nel caso di un rinvio, pur mantenendo validi i tagliandi per l’anno seguente, togliendo gli incassi di una edizione ma dovendo pagarne lavori per due di produzioni, si capisce bene come in ogni caso la quadra economica sia prossima al disastro.
Dall’altro lato, però, ci sta l’evento peggiore dalla seconda guerra mondiale, il cui espandersi ha travolto le più ordinarie attività economiche fino a quelle più ludiche come il sacro sport e con in testa le Olimpiadi di Tokyo. Ora, onestamente, non si vede come possa sembrare facile per un’organizzazione prendere una qualsiasi decisione – specie nelle condizioni incertezza in cui ci si trova adesso – comunque destinata ad avere conseguenze probabilmente devastanti.
Non sono molte le organizzazioni in grado di reggere la portata di un quasi certo salasso economico e quindi ogni persona dotata di un discreto metro di giudizio riesce ad immaginare i patemi d’animo nel prendere una qualunque decisione.
Qui allora ci viene in soccorso l’abbondante sicumera di cui sono pieni i commenti social specie appunto alla prima categoria, magari quegli stessi soggetti, protagonisti in tempi di pace delle maggiori profusioni di conoscenza circa ogni dettaglio dietro ciascuna offerta artistica.
Questa volta però hanno alzato l’asticella, non si tratta più di commentare chi far entrare dalla panchina come i migliori allenatori d’Italia, ma di liquidare egoisticamente in due parole di aver trovato una dannata ragionevole soluzione laddove il fior fiore di tecnici e professionisti sta sbattendo la testa: tiè cancella tutto e rinvia.
Rinviare si può, spostare si può e confermare si spera.
Quale delle tre scelte si opterà, al netto della indecifrabile situazione mondiale attuale, ugualmente ci saranno gravi perdite economiche per tutti i comparti coinvolti nell’evento. Il settore live e festival in particolare, in Italia già fa ridere di suo per debolezza intrinseca, per mancato riconoscimento culturale e per l’arrivismo da strapazzo.
Poco duole si può pensare, tanto gli eventi destinati ad essere travolti da questo tsunami verranno subito rimpiazzati da altri e si farà presto a dimenticare, perché – attenzione – se vi è proprio una categoria probabilmente in futuro avvantaggiata da questa crisi sarà proprio quella degli sciacalli e ciò in barba a tutti i sentimentalismi.
Adesso il Governo ha già messo sul piatto alcuni provvedimenti di salvaguardia economica però questi non tengono conto, giustamente in questa fase di prima emergenza, della particolare peculiarità del settore live costituito in Italia anche da molte organizzazioni no profit (ma questo è un altro discorso).
Dovremmo dunque aspettarci in seguito interventi più strutturali e specifici, ce lo auspichiamo, ma a leggere qua e là i primi interventi di opinionisti non c’è da stare allegri.
Qualche esempio.
Sul Corsera qualche giorno fa, Pierluigi Battista avanzava ipotesi di «un Fondo Nazionale per la Cultura o Prestito Nazionale con cui i risparmiatori italiani contribuissero a salvare dal disastro o addirittura dalla morte quel patrimonio immenso fatto di teatri di prosa, sale cinematografiche, teatri dell’Opera, musei, gallerie, siti archeologici, auditorium, balletti, orchestre, librerie, biblioteche, Conservatori, scuole d’arte e di fotografia, laboratori artistici e artigianale che oggi coinvolge direttamente ben più di mezzo milione di italiani».
Nobile idea e lungo e dettagliato elenco, perfino i laboratori artistici e artigianale citati, nel quale però non vi è alcun accenno al settore dello spettacolo.
Gli fa eco Andrea Carandini (presidente del FAI) il quale chiosa: «La proposta di Pierluigi Battista è miele sulle ferite di chi opera nel mondo della cultura: teatri, sale da concerto, musei, cinema e monumenti…. In questi giorni tremendi la cultura non è ovviamente in cima ai pensieri degli italiani, anche se lo svago intelligente e il conforto spirituale ch’essa procura, che oggi mancano, già cominciano a pesarci».
Il presidente del FAI dunque introduce il concetto di svago intelligente e magari le sale da concerto cui accenna sono quelle come le intendiamo noi.
O forse no, ma è evidente come l’opinione pubblica sia lontana dal rappresentarsi il concerto a Lucca di Sir Paul McCartney come un valido e tangibile esempio economico-culturale, senza porsi il problema di tutelare tutti i service, direttori di produzione, backliner, stage manager, servizi catering, nolo strutture di tutto il comparto live che da febbraio soffre un periodo lunghissimo di blocco totale di commesse.
E lo stesso discorso vale anche per tutte le produzioni dietro gli artisti, una famiglia economica tagliata fuori dai guadagni perché vive di live e non di vendite di dischi e qui si vedono i primi esempi di solidarietà come quello dei National in favore dei propri tecnici.
Dunque occorre ripartire e non al più presto, ma solo quando persone più qualificate di noi tutti avranno stabilito le condizioni di sicurezza per riaprire l’Italia.
Servirà denaro ma servirà soprattutto chiarezza a livello nazionale, con provvedimenti convincenti e sapienti – senza distanze sociali surreali in una venue per un live – e senza alcuna contraddittorietà tra le singole regioni con ordinanze a rincorrersi in perenne dubbia interpretazione per la gioia di Prefetture e Questure.
Servirà innanzitutto fiducia, ciascuno per la propria parte, è il momento della reciproca riconoscenza, comprendere e rispettare le scelte altrui, dalla semplice richiesta di rimborso alla più complessa scelta di cosa fare del proprio evento.
È il momento della forza d’animo e dei sentimenti, allorquando non si conosce il futuro ma ci si ricorda del passato.
Se allora per noi tutti, in questi lunghi anni, è davvero valsa la pena di condividere questo cammino, allora serreremo le fila per resistere, altrimenti ci saluteremo con le parole del violinista Wallace Hartley dette alla sua orchestra sul ponte del Titanic in affondamento:
«Gentlemen, it has been a privilege playing with you, tonight».
Ma per questa volta la barca non dovrà affondare, riprendiamo gli strumenti, suoneremo insieme la poesia del risorgere della Fenice.
Ph. Roberto Bonomo