Il 12 gennaio del 1969, nei negozi americani di dischi, fece la sua comparsa il primo disco di una nuova band. La copertina era quantomeno di cattivo gusto, una foto della tragedia del 6 maggio 1936, che colpì i passeggeri del LZ 129 Hindenburg, punta di diamante dell’aviazione civile tedesca. Anche il nome della band, Led Zeppelin, richiamava ricordi infausti. Infatti, gli Zeppelin, rimandavano alle pagine più scure della prima guerra mondiale, con le loro temibili incursioni nei cieli londinesi. Il nuovo combo era formato dall’unico sopravvissuto del gruppo degli Yardbirds, nome con il quale il gruppo aveva fatto i primi concerti sul finire del 1968, aggiungendo la desinenza new, tale James Patrick Page, e John Paul Jones, vecchia conoscenza delle sale di registrazione del tempo, nonché arrangiatore degli archi per il singolo degli Stones She’s a Rainbow. Completavano la formazione due principianti quasi assoluti: Robert Anthony Plant e John Henry Bonham, di appena ventuno anni, provenienti dalle zone delle West Midlands.
I due deus ex machina del progetto sono Jimmy Page e Peter Grant, il manager mentore, a metà strada tra il gangster e il colonnello Parker. Sono loro ad avere le idee chiare su quello che bisogna fare. Quando Grant offre i nastri registrati da Page e compagni a tempo di record, un prodotto bello e finito, alla casa discografica Atlantic, ha già chiara la strategia su come proporre il gruppo. È un nuovo modo di concepire il music business, lontano dall’idea arcadica della musica pop, dalla favola di Woodstock. I led Zeppelin vogliono i soldi, e l’Atlantic li accontenterà, cedendo su percentuali e controllo, come mai nessuna casa discografica aveva fatto.
Nel 1968 era uscito il debutto dell’altra stella degli Yardbirds, Jeff Beck. Page, insieme a Jones, ma ancora non Zep, aveva collaborato in una traccia. Il brano in questione è Beck’s Bolero, con alla batteria, sotto falso nome Keith Moon. Anche questa non è proprio una coincidenza. Moon era stato uno dei papabili per il posto da batterista, ma alla fine non accettò. In compenso lasciò l’idea per il nome del gruppo. Quei lead baloons, anfetamine, che li facevano assomigliare a tanti dirigibili in miniatura…
Ascoltando Truth, nonostante i pochi mesi di distanza che lo separano dal primo degli Zep, e nonostante le ovvie similitudini – due band a specchio, con un chitarrista acrobata, un cantante dalla voce blues, e una sezione ritmica potente ma agile al tempo stesso – si può avvertire come in realtà ere siderali separino i due dischi. Beck è una prima punta, ha una squadra che gioca tutta per lui, sta lì ad aspettare l’assist per fare goal. Chitarrista pazzo come un cavallo ma geniale, ti stupisce sempre con un colpo acrobatico. Page, al contrario, è un fuoriclasse che si mette al servizio dei compagni. Ricordiamoci che ha fatto molto gavetta come turnista, e sa che l’egocentrismo ha distrutto parecchi gruppi, compresa la sua ex band. Sa di essere bravo, ma la sua bravura la dimostra anche facendo un passo indietro, lasciando la scena all’ancora incerto Plant.
E proprio a proposito di Plant, non si possono non ricordare un paio di storie, entrate ormai nella mitologia del rock.
La prima scelta come front man era stata Steve Marriott degli Small Faces, che all’epoca considerava arrivata al capolinea la sua esperienza con il vecchio gruppo. Il corteggiamento di Page fu molto pressante, anche troppo, tanto che il manager Don Arden, un tipo al cui confronto Peter Grant era un innocuo clown, fece arrivare il messaggio che se avesse continuato a insidiare il proprio protetto, gli avrebbe fatto rompere le dita.
L’altra storia, che ormai tutti conoscono è quella di Terry Reid. Il quale non convinto dal progetto, e sentendosi in dirittura di lancio, pronto ad andare in tournée in USA con gli Stones quell’anno (vuoi mettere), declinerà la proposta, anzi suggerendo proprio il quasi sconosciuto Percy Plant. Reid, l’anno dopo rifiuterà la proposta di un altro gruppo, i Deep Purple. Oggi di lui si ricordano più i suoi rifiuti, che la sua dignitosa carriera discografica.
Ma torniamo alla musica. Fin dal primo brano Good Times, Bad Times è evidente la grandezza della band rispetto a molti contemporanei (forse solo i Rolling Stones e gli Who possono stare così in alto). La batteria di Bonham invade, straripa, comunica, mentre la chitarra di Page, diffonde scosse elettriche, spesso sovrastata dai vocalizzi di Plant, con il suo registro da mezzo soprano. John Paul Jones occupa lo spazio di fondo, silenzioso metronomo, facendosi sempre trovare pronto. Ascoltate You Shook Me, brano presente anche su Truth di Jeff Beck. In quello di Beck, però, è un semplice esercizio calligrafico, pesante, non lontano dalla tradizione. La versione di Page e Plant lo attualizza, restituendolo al presente anfetaminico del tempo. E Beck, che lo intuì, non la prese bene.
Stessa sorte subisce l’altro blues, I Can’t Quit You Baby, posto specularmente sul secondo lato. La cura Zeppelin, rinvigorisce il brano, strappandolo dal suo andamento strascicato, grazie soprattutto al lavoro di pedale di Bonham, che si presenta come uno dei migliori batterista di tutti i tempi.
Forse il brano che rappresenta meglio il nuovo gruppo, è Babe I’m Gonna Leave You, già nel repertorio di Odetta o Joan Baez. Però, mentre la Baez ne fa un lamento dolente, sussurrato quasi, Robert Plant, accompagnato dall’arpeggio e dalla progressione ” spagnola” del brano, lo trasforma nell’urlo di dolore di un amante tradito che ha deciso di lasciare il proprio partner. E la musica segue le onde del dolore in un’alternanza, tra acustico ed elettrico, la calma prima della tempesta, con le sferzate della Telecaster di Page a fare da spartiacque con il passato. Nessuno, come i Zep, sarà un bravo interprete di brani altrui e nessuno sarà capace di non pagare i credits agli autori originali come Page e compagni.
Emblematico è il caso di Jake Holmes, autore di Dazed and Confused, che chiude il primo lato, il quale mai riceverà un pound. Il brano era già presente nel repertorio degli ultimi Yardbirds. La versione Zep, con piccole modifiche a qualche strofa, si basa sulla minacciosa progressione discendente del basso di Jones, con la voce di Plant che sembra provenire dagli inferi. Il pezzo sarà il momento di Page nei concerti dal vivo. Apprendista stregone, percuoterà le corde della sua chitarra con l’archetto di violino, provocando nubi di suono e lunghe note stridenti, lasciandosi andare ad improvvisazioni di oltre venti minuti. Qui però, il tutto è contenuto in un minutaggio non eccessivo e i break epilettici dell’elettrica spezzano la fosca atmosfera iniziale.
Il secondo lato si apre con il brano più datato. Aperta da un magnifico lavoro all’organo di John Paul Jones, la ballad Your Time Is Gonna Come, paga il suo debito alla Mr Fantasy dei Traffic, con la sua chitarra acustica fin troppo simile. Poco male, forse speravano di solleticare e invogliare qualche fan di Winwood e soci, e questo spiegherebbe anche la scelta di pubblicare la canzone anche come singolo.
Una delle doti che bisogna riconoscere a Page, leader indiscusso non ancora offuscato dalla presenza scenica di Plant, è quella di essere un chitarrista poliedrico. Può suonare il blues, il rock’n’roll, ma non ha paura nemmeno di confrontarsi con la musica acustica. È risaputa la sua ammirazione per il lavoro dei due mostri sacri dei Pentangle, Bert Jansh e John Rembourn. Qui si cimenta, seppure ammantandolo con un tappeto di tablas, che ricorda molto i Quintessence, con il traditional Black Water Side, ribattezzato Black Mountain Side. Un antipasto della svolta unplugged del terzo album.
Cosa resta?
La feroce concisione di Communication Breakdown, inventa il punk che ancora non c’è. Satura e malsana al punto giusto, uno dei capolavori del disco, nella sua semplicità si colloca come ponte perfetto tra i Blue Cheer e i MC5, gruppi che di sicuro il diabolico Page conosceva già. Alla fine, troviamo How Many More Times, brano circolare basato sulla progressione di The Hunter di Albert King, sprizza citazioni più o meno colte. All’inizio era la sigla di chiusura degli show dal vivo. C’è anche un frammento del Beck’s Bolero. Omaggio o sberleffo?
Il successo dei Led Zeppelin si costruisce sul palco. Concerti su concerti per i primi due anni di vita e guai alle band che avranno la sventura di essere opening act. Spesso non saliranno sul palco per scelta, offuscate dalla bravura e dall’intensità dello show dei quattro. Una perfetta macchina da musica dal vivo, questo sono, e il disco restituisce, solo in parte l’intensità della band. Ma quel ” in parte” seppellisce parecchi gruppi del tempo. E il loro primo atto è solo un gustoso antipasto di quello che verrà più in là, sempre nel corso del 1969.
Il meglio deve ancora arrivare.