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La musica di Peaky Blinders

By giugno 3, 2020 No Comments

Avrebbe Peaky Blinders avuto la stessa, incredibile, forza narrativa anche senza la sua colonna sonora? Domanda spinosa, questa.

Chiunque abbia visto la serie di Steven Knight ha anche avuto modo anche di ascoltare – e apprezzare – una serie di canzoni che è impossibile catalogare semplicemente come sottofondo all’azione. Per questo motivo la domanda iniziale è più che lecita, così come è più che lecito lasciarla in sospeso.

Peaky Blinders è uscita nel 2013 ed è presto diventata una serie di culto. I motivi del successo sono molteplici, dalla trama al cast, fino ad arrivare all’estetica in generale, passando inevitabilmente anche dalla musica. Una musica che veste tutto alla perfezione, come un abito cucito su misura: accosta presente e passato, suona bene e fa anche attenzione ai titoli e ai testi.

Un lavoro fine e preciso, un piano ben congegnato e portato a termine con successo – giusto per rimanere in tema.

Le vicende hanno inizio nel 1919, in una Birmingham avvolta dal caos. A portare (il proprio) ordine in quel caos ci pensa la famiglia Shelby, guidata dall’algido Thomas. Questo è solo l’inizio di una lunga serie di eventi che intrecciano storia, politica e istanze sociali. Continuare a parlare della trama, tuttavia, sarebbe inutile, perché il punto qui è la musica, a cominciare da quella che accompagna i titoli di testa: Red Right Hand di Nick Cave and The Bad Sees. La traccia fa parte dell’album “Let Love In” e introduce il pubblico a una narrazione incalzante e spietata: “A tall handsome man in a dusty black coat with a red right hand“. A rendere il tutto ancora più maledettamente intrigante è il richiamo, nel titolo, al poema epico “Paradise Lost” di John Milton, che traccia il cammino del genere umano dalla caduta alla scoperta del libero arbitrio.

Con una premessa di questo tipo, è facile capire che la musica di Peaky Blinders è una questione seria. In ognuna delle cinque stagioni è stata affidata a un compositore/artista diverso. L’original score della prima è un lavoro di Martin Phipps, mentre per la seconda stagione è stato scelto Paul Hartnoll. Con la terza è arrivato Dickon Hinchcliffe, mentre per la quarta e la quinta stagione sono stati chiamati in causa Antony Genn e Martin Slattery.

È nato così un corpus di brani che spazia da PJ Harvey ai Queens of the Stone Age, dai White Stripes ad Anna Calvi. Pensate a un grande nome, lo troverete: Radiohead, Black Sabbath, Idles, Mark Lanegan. Ci sono voci ruvide, come quella di Tom Waits, e incredibilmente taglienti, come quella di Jenny Beth delle Savages. C’è l’ultimo David Bowie, quello di Lazarus, che racconta a voce la capacità di rialzarsi di un uomo (e ti fa anche un po’ commuovere, perché pensi a Bowie e a quell’ultimo disco, mentre vedi una scena che, già di suo, un po’ commovente lo è).

I corpi che si esplorano sono Is This Desire? di PJ Harvey, le questioni spinose sono Soldier’s Things di Tom Waits.

Stagione dopo stagione, le canzoni osano e provocano, si fanno più punk, con buona pace delle differenze spazio-temporali che esistono tra quello che si vede e quello che si ascolta. Quelle differenze diventano minuscole e finiscono per annientarsi. Le atmosfere industriali, i luoghi sporchi, i cavalli e il malaffare di una volta sembrano non aver mai ascoltato altro che le produzioni musicali uscite ieri.

È impossibile non rimanere colpiti da un aspetto in particolare. Nell’epoca delle serie tv “usa e getta”, del binge watching selvaggio, delle produzioni che escono veloci come un settimanale in edicola, Peaky Blinders ci ricorda che ogni cosa richiede il suo tempo. Che bisogna prestare attenzione all’azione e ai suoni che emette, ai movimenti che avvengono a ritmo di musica, uno per uno, manco fossero un balletto. Che la musica conta, non è un passatempo.

Avrebbe, dunque, Peaky Blinders avuto la stessa, incredibile, forza narrativa anche senza la sua colonna sonora? Se questa domanda avesse adesso la sua risposta, verrebbe meno uno dei preziosi insegnamenti di questa serie: mai rivelare troppo.

 

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