Cosa aspettarsi da un nuovo disco dei King Gizzard & the Lizard Wizard? Risposta semplice: praticamente di tutto. Se c’è una cosa che questo prolifico gruppo di australiani ci ha insegnato, è che non sempre si può catalogare tutto con una sola etichetta (e meno male!). Nel corso degli anni hanno saputo muoversi con destrezza tra generi diversi: una scelta, questa, che potrà non piacere agli amanti delle band che seguono un solo genere “puro”, o potrà anche confondere chi vuole approcciarli partendo da zero, ma che conferma quanto sappiano fare bene ciò che fanno. Così, per parlare di “K.G.“, il nuovo album, bisogna dimenticare il disco precedente, “Infest the Rats’ Nest” – con quell’attitudine sorprendentemente heavy/trash metal – per rispolverare invece “Flying Microtonal Banana” – con quell’attitudine splendidamente psych-rock, e non solo.
“Flying Microtonal Banana”, infatti, propose qualcosa di decisamente singolare e innovativo, quindi è necessario un piccolo, ma molto utile, passo indietro. Stu Mackenzie aveva comprato una chitarra customizzata per un tuning microtonale (che consente intervalli più piccoli dei semitoni tipici della musica occidentale). Dato che quella nuova chitarra andava suonata con strumenti simili, fece modificare anche gli strumenti degli altri membri della band. “Microtonal”, come anticipò già il titolo, fu dunque un disco di musica che utilizza i microtoni. Detto questo, possiamo tornare al presente.
Anche K.G. è stato influenzato dalla musica microtonale: “Registrare Flying Microtonal Banana – ha detto Mackenzie – è stata una delle cose più belle e divertenti che abbiamo fatto e dunque l’idea di fare un disco alla stessa maniera continuava a ripresentarsi. Così siamo tornati alle intonazioni microtonali in quella che è la quintessenza dei nostri dischi, il tutto prendendo spunto dal meglio dei precedenti contorcendone il suono in nuove forme e scale decisamente non occidentali. Inoltre, a causa di ciò che è successo nel mondo, ognuno di noi ha scoperto nuove modalità d’interazione e approccio: questo è di fatto il primo disco della band registrato senza che fossimo tutti nella stessa stanza”. Proprio così: mentre il mondo veniva catturato nel vortice del lockdown, i magnifici sette hanno iniziato a lavorare (in modo individuale) alla nuova musica.
Il risultato di quel lavoro sono 41 godibilissimi minuti. I singoli che ne hanno anticipato l’uscita – “Honey”, “Some of Us”, “Straws in the Wind” e “Automation”- avevano già fornito un’anteprima di quello che sarebbe arrivato, lasciando quella piccola, ma necessaria, incognita che con i King Gizzard è sempre dietro l’angolo. Dopo l’intro “K.G.L.W.“, spetta proprio ad Automation l’apertura dell’album: un momento ipnotico con un andamento mediorentale e un cantato robotico. Dettagli, questi, che tendenzialmente caratterizzano l’incedere di gran parte del disco. “Minimum Brain Size” punta su un riff accattivante e una voce frastornata, mentre “Straws in the Wind” trascina in una landa desolata, che non può che esistere sul piatto di questo giradischi. Un incontro tra reminiscenze mediorientali e retaggio folk, che non sa prescindere dal qui e ora: “Cooking something raw, cooking something big/ Pandemonium, selfish pigs/ Headless chickens scared shitless/ The media will never quit”.
“Some of Us” attinge a piene mani dal repertorio più classico della band: suoni sfibrati ed effettati, cori che sembrano fluttuare e graffi microtonali di chitarra. Sulla stessa scia è “Oddlife“. “Ontology” è un party inaspettato, con i suoi “Woo!” e un ritornello che ti entra nella testa. La vera sorpresa di questo disco, però, è “Intrasport“: con questa canzone si palesa quella eccellente follia di cui i King Gizzard sono capaci. Un inno EDM acido che viene impreziosito dagli inserti di zurna turca, uno strumento a fiato. Proprio quando pensi che il gruppo abbia puntato su un sound sicuro e familiare, ecco che arriva una folata di vento in grado di spazzare via le tue certezze. Terminata l’esperienza sulla pista da ballo, si torna a casa con “Honey“, una canzone che tranquillizza con la sua attitudine folk, tanto dolce quanto il titolo: “Like the wind on a sail I’ll steer you along/ And the germs outside I’ll keep you from/ Like the hail in the morn’ I’ll sing you a song/ While the mead I make can brew for you”. La chiusura è affidata a “The Hungry Wolf of Fate“, che è un po’ la nemesi di “Honey”, con chitarre distorte e voci quasi impossibili da distinguere al di là del suono. Un impeto d’orgoglio dell’anima heavy e doom, che riesce a trovarsi il suo piccolo spazio.
Di fronte a “K.G.” si può reagire in due modi: si può rimanere delusi, poiché ci si aspettava qualcosa di più audace o, al contrario, si può rimanere più che soddisfatti, avendo colto comunque l’audacia delle sperimentazioni e degli accostamenti. Al di là delle preferenze personali, va detto che scorre che è un piacere, come un viaggio in auto verso una destinazione ben nota, ma attraverso paesaggi che sembrano mai visti prima.