Chissà come mai.
Chissà come mai dei ragazzini della periferia londinese, media borghesia, scuole di quelle dove si deve andare in uniforme, finiscono per impazzire per cinque scoppiati di New York.
Eppure è così, i due fratelli Batt, David e Steve, sono così presi dalla musica dei New York Dolls che ascoltare i loro dischi non basta più. Vogliono creare un gruppo anche loro, suonare le loro canzoni. La devozione di David è tale che decide anche di cambiare il proprio cognome, in uno da battaglia, Sylvain, in onore di Sylvain Sylvain, chitarrista dei Dolls e suo idolo. Al più giovane Steve, tocca cambiarselo in Jansen: certo non è come quello del fratello maggiore, ma se non altro suona bene.
Trovano subito compagni disposti ad accompagnarli in questa nuova avventura, un taciturno oriundo italiano, tale Richard Barbieri che suona le tastiere, e un estroverso e dotato musicalmente coetaneo di origine cipriote, Andonis Michaelides, ma lui preferisce farsi chiamare Mick Karn e suona il basso.
Poi c’è il nome del gruppo da scegliere.
Anche lì, chissà come è arrivato, forse da una rivista sfogliata dal dentista o da un catalogo di viaggi. Ma eccolo lì: Japan. Esotico e alternativo quanto basta.
Tutti pronti? Non ancora. Per ultimo arriva un chitarrista, Rob Dean, lui sì, quasi un sosia dei New York Dolls.
Ora davvero si può partire. È mentre gli anni settanta fanno il botto, punk e tutto il resto, i cinque liceali di buona famiglia si buttano nella musica. Non sono grandi musicisti all’inizio, ma la volontà non gli manca e poi hanno un certo orecchio. Il repertorio, in principio, è quello che è: a parte le cose dei Dolls (era scontato), c’è un po’ di tutto, qualche successo della Motown e un poco di Bowie d’annata, quello più glam , che non basta mai.
L’impegno viene premiato. Dopo qualche anno, dopo molti fischi e molti insuccessi, rieascono a vincere un concorso per gruppi esordienti. Primo premio, un contratto discografico con la Ariola Hansa.
Adolescent Sex esce nel 1978. Mostra una band che paga il tributo ai propri idoli, qualche buona traccia di glitter and roll, poca cosa per gridare al miracolo.
Eppure, nonostante la sua banalità, il disco che in Europa passa inosservato, riesce ad avere un certo successo, immaginate dove, proprio in Giappone. Forse il fascino del nome oppure dei cinque ragazzetti, che con il loro trucco e i capelli decolorati ricordano tanto dei personaggi da fumetto Manga. Segue tournè e concerti con affluenze degne dei Beatles.
La casa discografica decide di non perdere il treno. A manco sei mesi di distanza, fa uscire il secondo disco, Obscure Alternatives.
Mentre il primo lato non è altro che una continuazione del primo disco, è sul secondo lato che si avvistano i primi segnali di trasformazione del gruppo, che tenta di allontanarsi dalle coordinate precedenti per cercare di approdare a un pop rock, o quello che è, più raffinato ed europeo.
Ascoltate The Tenant, per esempio, lontana anni luce dal repertorio degli esordi, più vicina a un ingenuo art rock esistenzialista, oppure Suburban Berlin, primo atto della fascinazione di Sylvian – che si propone fin da subito come il compositore principale della band – per la Mitteleuropa.
Incoraggiati dal successo e da qualche buona critica, alla fine del 1979 decidono di tentare la sorte con un singolo prodotto dal Re Mida Giorgio Moroder.
Life in Tokyo si pone in netta linea di discontinuità con quanto fatto prima, c’è un po’ di Roxy Music, sinth energetici e David Sylvian si atteggia a piccolo Thin White Duke. La sua voce comincia ad assumere un tono più baritonale, più recitativo, allontanandosi definitivamente dagli urletti isterici dell’inizio. E poi con il suo caschetto biondo e la sua arie da dandy, il buon David piace molto alle ragazzine: in Giappone ne erano pazze, ma a quanto pare sembra che anche in Europa lo apprezzino.
Eppure qualcosa non funziona, il singolo non è un successo. Il brano resta un vorrei ma non posso e qualcuno all’Ansa Hariola, comincia a pensare che il cavallo sul quale puntavano si è azzoppato e forse sarebbe il caso di abbatterlo.
Sempre nel 1979 viene pubblicato il terzo album, Quiet Life, che si pone come un deciso passo in avanti rispetto a quello che era stato fatto fino a quel momento. Scordatevi le chitarre distorte e le tastiere plasticose. Ci troviamo davanti, invece, a una serie di intuizioni stilisticamente pregevoli di pop sintetico, molto vicine a quelle che in quegli anni stanno producendo i Roxy Music – evidente punto di riferimento – dei quali John Punter che produce il disco, ne è stato compagno di avventura.
David Sylvian sposta decisamente le sue performance canore verso l’idea di uno Scott Walker di fine millennio, elegante in tuxedo. Ma è tutto il resto della band a stupire. Specialmente la sezione ritmica.
L’eleganza e l’inventiva di Jansen unita alla creatività e all’originalità del suono del basso freetless di Karn, segno distintivo della band, donano un senso di indeterminatezza alle canzoni, un misto di eleganza formale ma anche di struttura che affascina senza condizioni.
La title track, con la sua chitarra in odore di glissando frippiano, dovrebbe avere migliore sorte, così come Despair – incursione di Sylvian nello spleen Baudeleriano – mentre gli omaggi al passato di All Tomorrow Parties dei Velvet Underground o di I Second that Emotion di Smokey Robinson and Miracles (pubblicato come singolo), sono rivestiti da nuovi arrangiamenti che donano una patina di decadenza mista a drammaticità capace di attualizzarli.
Nonostante i suoi pregi, però, la critica non è molto positiva nelle sue recensioni e il disco non ottiene il successo meritato, anzi rischia di diventare la pietra tombale del gruppo.
Intanto c’è un gruppo di Birmingham che da lontano prende appunti. Si chiamano Duran Duran e – purtroppo o per fortuna – ne sentiremo parlare.
Ma quando ormai sembra che il fallimento sia alla porta, ecco arrivare il salvatore.
La Virgin Records decide di investire nella band e dopo una lunga battaglia, anche onerosa, con la vecchia casa discografica che ha fiutato i soldi e improvvisamente è restia a lasciarli andare, riesce a farli firmare.
Il primo frutto del nuovo sodalizio arriva nel 1980 ed è Gentlemen Take Polaroids, da tutti reputato il disco della maturità. Qui si concretizza tutto il meglio fatto vedere con Quiet Life. Musica notturna, elegante, mai scontata. Se Methods of Dance è un singolo eccezionale, forse ancora di più del brano che da il nome all’album, Night Porter offe una performance di Sylvian da crooner consumato, uno Scott Walker dalla parti di Isherwood e del suo Addio a Berlino.
Ma non sono solo le canzoni a fare la differenza. Durante le frequentazioni nelle terre del Sol Levante, i Japan hanno stretto amicizia – amicizia che soprattutto Sylvian coltiverà a lungo – con alcuni musicisti locali, non so se avete presente la Yellow Magic Orchestra e il suo leader Ryuichi Sakamoto .E sono proprio nuove sonorità elettroniche a tingere di oriente Taking Islands in Africa, la traccia più intrigante del disco.
Ma per un nuovo amico che arriva, un vecchio amico va via.
Rob Dean, sempre più ai margini del nuovo progetto esce dal gruppo. Tutto questo ha per effetto di spostare il baricentro delle composizioni di Sylvian verso l’elettronica e le tastiere, lasciando alla chitarra solo un ruolo di abbellimento e contorno.
Forti del successo, finalmente raggiunto, la band si prepara al passo successivo. Certo, la loro sistemazione, forse affrettata, nel filone dei New Romantics – qualcuno se li ricorda? – non è il massimo, ma gli regala una certa visibilità. Visibilità della quale approfitta la vecchia casa discografica, che fa uscire un antologia, Assemblage, che ottiene , grazie anche alla presenza di Life in Tokyo – che strano, vero? – un discreto successo di vendite.
Ma i Japan sono proiettati oltre. Così nel 1981 arriviamo al nuovo album. Tin Drum.
Unico a non contenere cover, rappresenta l’ennesimo cambiamento, o se preferite l’ennesima evoluzione dei Japan. Denso di influenze orientali, con pezzi come Visions of China, Cantonese Boy, Canton , contiene anche gemme più preziose. Ascoltate la fascinazione mediorientale, tutta basso, voce e percussioni di Sons of Pioneers, con Sylvian più ieratico più che mai, oppure il Nippon Funk destrutturato di The Art of Parties, un viaggio dei Can in terra di Oriente.
E poi il pezzo più pregiato. Forse l’inizio dell’addio.
Quanto è lontana l’eterea perfezione di Ghosts dalle canzoni del primo album? Eppure sono passati neanche quattro anni. Un’evoluzione di scrittura, di modus operandi, di abbandono di costruzioni già sentite che rivela, semmai ci fossero stati dubbi, quanto sia grande il talento di Sylvian, anima in continuo movimento, sempre rivolto alla ricerca di un suono unico e non comparabile a niente ascoltato in passato.
Curiosità.
Le foto di copertina sono della fotografa giapponese Yuka Fujii, allora fidanzata di Mick Karn, ma che dopo poco tempo cederà al fascinoso David.
C’è chi pensa che sia questo uno dei motivi di disgregazione della band. Tensioni, invidie, rancori, nulla di nuovo in fondo. Ma in realtà, a guardare il percorso artistico di Sylvian, l’abbandono dei Japan è solo un passo consequenziale nella sua ricerca di nuovi percorsi musicali, ed è chiaro che rimanere ingabbiato nella struttura di un gruppo lo priverebbe di tutto ciò.
Ultimo atto della band è live Oil on Canvas, uscito nel 1983, resoconto dell’ultimo tour, con la scaletta composta prevalentemente dai brani dei due album con la Virgin e il recupero di qualche scheggia del passato. Presenza disturbante è la chitarra corrosiva di Masami Tsuchiya, in trasferta dal gruppo New Wave giapponese Ippu-Do.
Anche se la notizia dello scioglimento è tenuta nascosta fino all’ultimo, il live set viene aperto da una breve composizione tratta da Quiet Life, Burning Bridges:
“É tutto alle mie spalle ora. Ho fatto quello che dovevo”.
Insomma, chi ha orecchie intenda.
Alla fine dell’anno arriva la notizia ufficiale. Il resto del decennio sarà illuminato, oltre che dalla compilation Exorcising Ghost, del 1984, dai dischi solisti di Sylvian, da quelli di Karn, in alcuni casi con la collaborazione proprio del vecchio amico – in tal senso vi consiglio di recuperare Dreams Of Reason Produce Monsters del 1986 – e dal progetto di Jansen e Barbieri che con la sigla The Dolphin Brothers sforneranno nel 1987 un misconosciuto capolavoro, I Catch the Fall.
Bisognerà attendere il 1991 per l’agognata reunion, anche se i nostri si presenteranno sotto mentite spoglie come Rain Tree Crow e il disco, aldilà dell’algida perfezione di brani come Blackwater e di Every Colour You Are, non aggiunge molto a quanto già si sapeva.
Purtroppo, l’inattesa morte di Mick Karn, ha tolto per sempre la possibilità di un nuovo capitolo, triste epilogo di quella che è stata una magnifica avventura che, pur nella sua breve durata, è riuscita a creare un prodotto innovativo che ha resistito alle mode e al tempo, e le cui influenze hanno caratterizzato parte della musica più recente, vedi per esempio gruppi come No Men di Steve Wilson e Tim Bowness, o dei più famosi Porcupine Tree dello stesso Wilson, dove Richard Barbieri si troverà a collaborare. Per non parlare del percorso di Sylvian in collaborazione con Robert Fripp.