“Marauder is a facet of myself. That’s the guy that fucks up friendships and does crazy shit. He taught me a lot, but it’s representative of a persona that’s best left in song. In a way, this album is like giving him a name and putting him to bed”.
Questa è la versione di Paul Banks rilasciata in un’intervista. Una sintesi corrosiva di Marauder, questa creatura tenuta nella gabbia di un LP, un incubo troppo pericoloso da sguinzagliare. In fondo, gli Interpol sono stati, sin dagli albori, viaggiatori malinconici di un sound glaciale, necessariamente inquietante, volutamente ombroso e foriero di demoni personali in cui si è riconosciuta più di una generazione.
Non era facile incasellarli in una dimensione che generasse uno scontro fra il più puro post-punk e le più cupe atmosfere new wave; tuttavia, il loro territorio esiste in modo autonomo ed è indipendente da ogni altra combinazione musicale. Osservarli in questo presente, con il loro passato segnato dalle luci bianche delle periferie newyorkesi e le strade notturne inghiottite dal buio, è un po’ come disegnare macerie di un tempo invisibile mai realmente terminato. Non è mai stata spensierata l’indole con cui si sono fatti strada gli Interpol, proprio perché quest’austerità stilistica sembrava essere parte integrante di una visione intimista della musica, un lavoro da prendere sul serio sotto ogni dettaglio. Lontani da ogni macchinazione manieristica, la loro discografia, che nasce nel periodo d’oro del post-punk revival dei primi anni duemila, dove Turn on the bright lights e Antics uscivano fra un disco degli Strokes o dei Franz Ferdinand e un esordio dei Bloc party, è stata intervallata anche da momenti ibridi, difficili da assimilare pienamente e impossibili da paragonare ai primi lavori, che ancora oggi restano riferimenti inappuntabili di un glorioso passato. Rigore e razionalità sono sempre stati i baluardi della band newyorkese; una metodica incontrovertibile costruita su testi ricercati nella forma e nella sostanza.
Quei suoni misteriosi ma decisi, che mostrano una dispersione di sentimenti e azioni dell’umano, rievocano quella struggente amarezza che era pura creatività di visionari come Ian Curtis, dove se si doveva dire che l’amore avrebbe distrutto tutto, non ci si girava intorno. Senza mezze misure. Marauder riporta il suono a una condizione fisica, propriamente materica, dove ogni frammento vive nel rumore e nell’eco e la voce rimbalza fra i colpi e i controtempi. La concezione della musica quasi come installazione visiva appare chiara, perché Paul Banks ha fatto sempre trasparire una tecnica sonora in cui l’essenzialità ridotta all’osso ha reso l’elaborazione una performance quasi catartica, percepibile anche nell’ascolto di un album, a prescindere da un’esecuzione dal vivo. Questo scenario post-moderno, in cui esistono ancora band come gli Interpol che prediligono corde e percussioni, come se tutto fosse destinato – compresa la musica – a tornare al grezzo, non si prestano al futuro smart, ma lo descrivono da lontano e lo giudicano con toni progressivamente decostruttivisti. Questa band, che ha trasmesso sempre un senso di eleganza austera e di raffinata estetica, mette in luce un modo di essere artisti che impone classe e rispetto. D’altronde, quelle chitarre piangenti di Paul Banks e Daniel Kessler sono ormai inconfondibili, ma si percepisce in quest’album una maggiore distensione, seppur corredata da quei ritornelli ridondanti che mischiano il freddo alla notte e non trovano mai pace. Anche ascoltare Marauder, come ogni altra opera degli Interpol, permette di ritrovarsi fra le righe di Paul Auster, quando nella Trilogia di New York si coglie quell’inciso “Solo le tenebre possono persuadere un uomo ad aprire il proprio cuore al mondo, e ogni volta che penso a quello che accade mi trovo circondato dalle tenebre”.
Gli Interpol hanno descritto questi primi vent’anni del terzo millennio con una corposità incandescente, fatta solo di note e parole, senza mai adeguarsi al futuro incombente, con una personalità che rasenta quasi un senso tradizionale dell’arte nel senso più puro e sincero. Le strade infangate e i vicoli ghiacciati di un inverno newyorkese, la periferia che rilascia luci opache, il reale che rimbomba; tutti questi elementi hanno reso universale un’atmosfera di voci oscure che disegna l’inadeguatezza verso un futuro senza identità. Quest’immagine arriva dalle note di If you really love nothing, che appare come l’inizio di una notte perduta. The Rover, forse il più classico dei brani alla Interpol in questo disco, mette in scena quella composizione appositamente costruita per non lasciare un finale compiuto, mantenendo un distacco da ciò che è percepibile e abbandonando il reale. Complications è una specie di intermezzo, quasi un rodaggio leggero in vista di Flight of Fancy, una delle punte dell’album, anche se la vera sorpresa è Stay in touch, un esperimento musicale interessante data la rigidità dello stile della band, che in questo caso si apre a riff non propriamente geometrici come di consueto. In questa sequenza, Mountain child dimostra questa nuova empatia, anche grazie al contributo di Sam Fogarino, che si prende la scena mostrando tutto il potenziale necessario alla batteria. NYSMAW, allo stesso modo, personifica questo tentativo di mutare identità senza scostarsi dagli incubi metropolitani. Surveillance dimostra le vere intenzioni di Marauder, cioè consolidare la realtà nei meandri di un suono ininterrotto, tenere a bada gli incubi che non possono essere scacciati, come si deduce da un passo di questo brano: “Do I stand on my life, tired of making shit older a touch. Stand on my rights, be out of cuts”. In questa stessa direzione, Number 10 e Party’s over riportano l’ascolto alla dimensione primordiale, quando in ogni brano degli Interpol non c’era distensione melodica e tutto diventava una viscerale sofferenza.
In fondo, anche la conclusiva It probably matters non porta avanti una vera e propria nuova realtà, ma impone questa ricerca di quiete che non trova spazio e si perde nell’eco di un riff, dove la sinergia fra voce e chitarra è più scostante e non segue nessuna linearità. Forse, la vera sorpresa sarà un album che superi lo stile ormai consolidato della band newyorkese, stravolgente in ogni dettaglio e desideroso di nuove immaginazioni, ma per questo sarà necessario scacciare quei demoni che ancora rimangono ancorati alle parole e, soprattutto, alla musica.