“The man in me will do nearly any task,
and as for compensation, there is a little he would ask…”
Potremmo sintetizzare con le parole di Bob Dylan “Il Grande Lebowski“, capolavoro dei fratelli Coen che, nonostante i suoi 22 anni, non ha perso un grammo della sua straordinaria attualità, ritagliandosi uno spazio tra le opere cinematografiche più influenti. Perché come afferma Robert Eber – grande critico americano – “Il Grande Lebowski racconta un modo di essere, non una storia”: un modo di essere che attraverso il nostro affezionato poltrone Drugo diventa espressione della società, assurgendo così ad un inno alla leggerezza e alle debolezze.
Ma andiamo più a fondo: chi è Drugo? Come afferma nell’incipit del film la voce fuori campo “Drugo è l’uomo giusto al momento giusto nel posto giusto, là dove deve essere”, in una Los Angeles che non fabbrica sogni ma alimenta i teatrini dell’assurdo di una generazione che ha reagito con modi e pensieri differenti a quel massacro chiamato Guerra del Vietnam.
E così, in un mondo di vincitori e vinti si consuma la quotidianità – insensata ma al contempo reale – di un uomo che è solito bighellonare tra gli scaffali del supermercato in ciabatte, vestaglia e occhiali da sole, ma che si ritrova da un giorno all’altro catapultato in una storia fatta di riscatti, rapimenti e nichilismo. Ed è proprio sul dualismo che si basa Il Grande Lebowski: da un lato il pacifico Drugo e dall’altro il rissoso Walter, rimasto con la testa e con il cuore in Vietnam e che, sulle note di I Hate You dei Monks, minaccia con la pistola il povero Smokie, colpevole di aver oltrepassato la linea al momento del tiro; da un lato i magnati della finanza e i guerrafondai, dall’altro gli sfaccendati e i pacifisti; da un lato il 1991, dall’altro le colonne sonore che se ne sbattono del contesto storico sfoderando brani country-western (Tumbleweeds dei Pioneers), folk (The Man in me di Bob Dylan), ma anche latinoamericani (indimenticabile Hotel California nella versione gitana): un dualismo che proprio perché diverso risulta perfetto, facendo sì che Bob Dylan conviva alla perfezione persino con i Gipsy Kings.
Per rendere possibile ciò, i fratelli Coen si affidano a T Bone Burnett – eclettico musicista e produttore discografico – che propone un mosaico variegato, arrivando perfino a consigliare un brano della peruviana Yma Sumac del 1951; inutile spendere parole sul risultato dell’esperimento, lo sappiamo già.
Ultima – ma non per importanza – in questo viaggio svestito di sogni ma sovraccarico di allucinazioni, l’indimenticabile Dead Flowers dei Rolling Stones nella versione del cantautore folk Townes Van Zandt, brano per cui i fratelli Coen hanno dovuto lottare. Sì, perché alla richiesta fuori budget di oltre 150 mila dollari per i diritti del pezzo, i due registi invitarono Allen Klen – storico manager dei Rolling Stones – a vedere un premontato della pellicola nella speranza di intrigarlo. La tradizione narra che alla famosa battuta di Drugo “Io odio i fottuti Eagles”, Klen si sia alzato e abbia esclamato “Ok, è vostra, ve la regalo”.
E così tra un’audiocassetta, un bicchiere di White Russian e la compagnia dei fedeli amici, scorre la vita di un uomo proprio come una partita di bowling: segnata da un percorso delineato ma che talvolta può andare nelle corsie laterali, non centrando l’obiettivo. L’importante è non disperare e prendere la vita così com’è, perché come ci insegna Drugo “bisogna saper aspettare”. E per questo per noi sarà sempre l’uomo giusto al momento giusto nel posto giusto.