Titolo: “Racconta l’epoca contemporanea in 12 tracce”. Svolgimento: Ultra Mono degli Idles. Il nuovo album della band di Bristol era uno dei più attesi di questo caotico 2020 e, in quanto tale, ha suscitato ogni tipo di reazione possibile, nel bene e nel male. Come tutte le produzioni degli ultimi mesi, paga il suo tributo all’anno in corso, offrendo un ulteriore giro sulle montagne russe dell’emotività. Quel giro si compone di brani urlati e tracce più accondiscendenti, cori, ghigni e frasi caustiche. È fuori di dubbio che Ultra Mono abbia offerto ai detrattori degli Idles ottimi argomenti di discussione. Gli si rimprovera di non aver innovato molto, rispetto a ciò che hanno fatto fino adesso, così come di ricorrere a frasi che suonare troppo come slogan. In realtà, nel nuovo album c’è anche una ricerca di novità, con alcune soluzioni che si addentrano in territori inaspettati. Il tutto al netto di un retaggio che, con estrema dedizione, non è intenzionato ad andare via. Una sorta di marchio di fabbrica. Riff martellanti, ritornelli vigorosi, discorsi senza mezzi termini e l’inconfondibile modo di pronunciare ogni parola di Joe Talbot: queste rimangono solide certezze.
Gli Idles non hanno mai voluto essere definiti “punk” ma, volenti o nolenti, devono accettare il fatto di avere quell’attitudine lì – e neanche troppo velata. Un discorso sul disco si svolge, inevitabilmente, su due piani paralleli: musica e testi. Si parla di politica, femminismo, inclusività. Lo si fa, è vero, in un modo che alcuni potrebbero trovare semplicistico, ma che non lo è necessariamente. E poi, ammettiamo una cosa: in un’epoca in cui le parole vengono costantemente private del loro significato, in cui si conversa utilizzando acronimi e si scrive con una grammatica eccessivamente creativa, è davvero così tremendo utilizzare un modalità comunicativa che sia chiara a tutti? Forse no. Il discorso, tra l’altro, rimane estremamente coerente con ciò che Idles hanno fatto fino a oggi. Picchiano meno duro, ma comunque picchiano. Ultra Mono è il terzo lavoro dopo “Brutalism“, un entusiasmante esordio, e “Joy As an Act of Resistance“, che li ha consacrati. Si pone sulla stessa strada, come continuazione di un percorso che forse ha perso la (godibile) ruvidità iniziale, ma non dimentica da dove arriva. E sa dove vuole andare. Fino a oggi hanno continuato a scalare la vetta, conquistando un posto sempre più rilevante sulla ribalta della scena mondiale. La loro è una di quelle situazioni da “tutti ne parlano” che, alle volte, si ritorce contro come un boomerang.
L’album parte in modo potente, con “War“: una porta d’ingresso in un universo indisciplinato quanto basta. Non servono troppe parole, bastano i cori: “This is war! Anti-war!”. “Grounds” (insieme a “Mr Motivator“, “A Hymn” e “Modern Village“) è uno dei singoli che hanno anticipato l’uscita del disco: ha quel synth di memoria New Wave che – diciamoci la verità – aveva un po’ messo in allerta. “Do you hear that thunder? That’s the sound of strength in numbers” è un memento: bisogna scendere in strada per quello in cui si crede. E se non ci si sente troppo ispirati, arriva “Mr Motivator”: “Let’s seize the day, all hold hands, chase the pricks away. You can do it”. Perché, non dimentichiamolo: “It’s all about the confidence”. “Anxiety” suona estremamente familiare, in pieno stile Idles, e apre la strada a “Kill Them with Kindness“: eccola lì l’irriverenza dei tasti del piano – stranamente delicati – che ti prendono in giro quel tanto che basta, e ti riportano subito con i piedi per terra. I testi mescolano ironia, serietà, rabbia e consapevolezza. Stanno sul filo del rasoio dei contrasti, sempre pronti a stridere.
“The Village” è trascinante, con le chitarre indisciplinate che accompagnano un passeggiata lungo le vie di un villaggio che è tutto fuorché ideale: “Ho odiato crescere in una città che in realtà era un paese, che in realtà era come un acquario – ha detto Joe Talbot ad NME, parlando del brano -. Me ne sono andato appena ho potuto solo per rendermi conto che l’acquario non esiste… esistono solo i pesci e sono ovunque”. A seguire arriva “Ne Touche Pas Moi“, con la voce di Jehnny Beth delle Savages. Un brano rabbioso, che sottolinea la necessità di rispettare reciprocamente gli spazi personali, al grido di “Consent!”. Consenso: una parola di cui ci si dimentica un po’ troppo spesso. Rimanendo in tema di collaborazioni, troviamo nel disco anche contributi di Warren Ellis, David Yow e Jamie Cullum. Idealmente, potremmo dividere Ultra Mono in due parti, con il brano “Carcinogenic” a fare da ponte. Le ultime quattro tracce, da “Reigns” alla finale “Danke“, sembrano cambiare marcia, abbassano la luce per rimanere quasi al buio. Sia “Reigns” che “The Lover” sconfinano in territori di memoria Eighties, in bilico tra retaggi Dark e New Wave. “A Hymn” è un inaspettato abbraccio, una sorta di invito ad accettare le emozioni e i dubbi su se stessi che tutti, volenti o nolenti, hanno. “Danke” è un perfetto commiato, con una batteria martellante e un inconfondibile omaggio a Daniel Johnston: “True Love Will Find You in the End”, ringhia Joe Talbot, in un contrasto estremo con la voce e il cantato di Johnston. Non poteva esserci un epilogo più adatto.