Danzig Sings Elvis era scritto nel destino. Non è così strano che Glenn Danzig possa aver registrato un intero disco di cover di Elvis Presley: per lui, che vanta il soprannome di “Evil Elvis”, il Re è sempre stato una fonte di ispirazione e già in passato si è dedicato ad alcune sue cover. Se questo non fosse abbastanza, si può aggiungere che ha scritto canzoni sia per Johnny Cash (“Thirteen”) che per Roy Orbison (“Life Fades Away”) e che ha già all’attivo un altro disco di cover di vari artisti: “Skeletons” (2015).
Ascoltando “Danzig Sings Elvis”, una cosa appare subito evidente: è un tributo in tutto e per tutto, ma non ha bisogno di passare dai successi più popolari. Si tratta di cover lineari, cantate con quella partecipazione e quell’abbandonato sentimento che si addice alle canzoni di Elvis: interpretazioni sincere, scaturite dal legame (del tutto personale) che si sviluppa con una icona della musica che si ascolta da sempre.
Bisogna ammettere che la voce di Glenn non è più quella di una volta. Ci ha abituato, fin dai tempi d’oro dei Misfits, a notevoli virtuosismi e a una specifica caratterizzazione, che non emerge troppo nitidamente dal suo nuovo disco. L’impronta c’è, è impossibile negarlo, ma manca un tocco un po’ più “alla Danzig”, che avrebbe reso le cover ancora più sue.
Da un punto di vista musicale, le tracce si basano sulla combinazione classica di chitarra e piano, uno stile strumentale semplice che omaggia a pieno il primo Elvis, privilegiato dalla tracklist del disco. Solo due canzoni, infatti, sono successive al 1960: “Always on my Mind” e “Loving Arms“. In primo piano c’è la voce di Danzig, che mantiene un graffio di fondo che, probabilmente, ne diviene il tratto più distintivo. A livello di produzione, c’è poco da dire, con l’unica eccezione di un riverbero molto presente.
One night with you is what I’m now praying for
Ad anticipare l’uscita del disco è stata “One Night“, che lascia intatta l’interpretazione appassionata della versione originale. “Danzig Sings Elvis” si apre, invece, con “Is It So Strange“, una traccia che mette subito in chiaro come stanno le cose: Glenn si trova perfettamente a suo agio con le canzoni del Re. Gli sono familiari. Quello che è altrettanto chiaro è che non lo si può, in questo caso, chiamare “Evil Elvis“: di malvagio, nelle sue cover, c’è ben poco, con buona pace dell’espressione sostenuta della foto di copertina (copertina che, peraltro, riprende quella di “Back to Memphis“).
La classica ballata “Lonely Blue Boy“, registrata da Elvis con il titolo “Danny“, perde i cori, che vengono sostituiti dal riverbero delle chitarre, ma mantiene la sua forza melodica. In questa traccia, così come nella successiva “First in Line” rimane una certa attitudine a lasciarsi cullare dalla malinconia. Tuttavia, nel caso di Danzig, si rimane in una dimensione meno sognante e più “concreta”.
“Baby Let’s Play House” paga all’originale il suo tributo in termini di “baby” ripetuti ossessivamente, ma rende evidenti le differenze tra la voce di Elvis e quella di Danzig. Quando Elvis registrò quelle canzoni, aveva una voce ricca, piena e modulabile in una moltitudine di sentimenti mentre, volente o nolente, oggi la voce di Danzig non può avere quella stessa profondità.
Ciò non vuol dire che non possa creare delle cover estremamente godibili e profondamente sentite, sia chiaro. È solo che è impossibile non fare un paragone.
Presley ha sempre avuto, senza sforzarsi troppo, una carica di sensualità in grado di fare scandalo. Con il suo alchemico mix di canto e di mosse, ha fatto storcere il naso ai benpensanti del suo tempo, che lo accusavano di traviare intere folle di giovani in visibilio. La senti nelle canzoni, quella carica. Nelle cover di Danzig non si può dire sia presente, ma si avverte una buona dose di quel fascino che ha sempre circondato questo principe delle tenebre.
Treat me mean and cruel but love me
“Love Me” abbandona i cori dell’originale, un po’ come a voler dire: va bene l’omaggio a Elvis, però non dimentichiamoci chi è sono. “Fever” rimane estremamente fedele, mentre “When it Rains, it Really Pours” diventa più sporca nella versione di Danzig. A rientrare nella carreggiata della tradizione ci pensa “Always on My Mind“, intrisa di una struggente malinconia: “Maybe I didn’t love you quite as often as I could have and maybe I didn’t treat you, quite as good as I should have”. “Loving Arms” alza al massimo l’asticella della fedeltà alla versione originale.
Anche “Girl of my Best Friend” fa a meno dei cori e rispetta quella ruvidità che pervade un po’ tutte le tracce. Ruvidità che è comunque più congeniale alla musica di Glenn e che diventa un punto di forza di questo disco. È da quella ruvidità che viene fuori più carattere.
Il disco si chiude con la romantica “Young and Beautiful”: “So fill these lonely arms of mine and kiss me tenderly, then you’ll be forever young and beautiful to me”. La differenza più evidente con l’originale sta probabilmente nel pianoforte: per Elvis era un delicato accompagnamento, ai limite dell’impercettibile, mentre per Danzig è un elemento più presente, che rivendica il suo posto sulla scena.
Arriva così il momento di tirare le somme. “Danzig Sings Elvis” è fatto di luci e ombre. Si parte sempre dal presupposto che si tratta di un disco di cover ma, visti i due nomi chiamati in causa, non è possibile parlarne in modo canonico. Le canzoni di Elvis sono indubbiamente tra le più apprezzate, quando si parla di cover, quindi riuscire a fare, nel 2020, un disco come questo, è già un gran merito.
Le tracce mostrano una parte dell’universo Elvis che non tutti conoscono, quella che va oltre le hit che si è abituati a sentire. Sono preferenze personali e rappresentano una delle chiavi di lettura di questo disco: Danzig ama Elvis e decide di omaggiarlo come meglio crede.
Proprio queste riflessioni, però, fanno nascere una serie di domande che rimangono senza risposta: perché non ci ha messo qualcosa in più di suo? È ovvio, il confronto con il Re è impegnativo ma, dato che il disco si è preso un bel po’ di tempo per venire alla luce, non si poteva spingere un po’ più oltre?