HOMEInterviste

Giorgio Canali: il fuoco altrove e la pioggia dentro.

By gennaio 25, 2019 No Comments

Una certa musica italiana appartiene a un tempo che non sembra mai esistito. Giorgio Canali è un superstite che mantiene vivo questo tempo, mostrandosi come una di quelle voci portatrici di un senso della musica influenzato e modellato da contaminazioni politiche e culturali di un contesto lontano, quando l’Italia viveva ancora la fine di un millennio, che sembrava già tanto da dover sopportare. Canali ha una lunga storia alle spalle che parla da sé. L’esperienza con i CCCP – Fedeli Alla Linea, quando usciva Epica Etica Etnica Pathos, testamento culturale di una generazione che viveva delle sue cicatrici e si immortalava in una dimensione ancestrale. Poi, la caduta del muro di Berlino, la fine dell’ortodossia e l’esperienza con i C.S.I., che apriva le porte di una maturità artistica marcata e salda al divenire. In questi anni, Giorgio Canali collabora con i Noir Dèsir, viaggia molto, ma collabora anche con tante realtà italiane dell’entroterra emiliano e non. Infine, la parte finale di un tempo, il momento dei P.G.R., che chiude un cerchio e spalanca la personalità di Canali nel nostro presente. Giorgio Canali & Rossofuoco è un progetto tutt’altro che anacronistico, che si preoccupa di confrontare la realtà e le miserie del presente con la condizione umana. Canali ha sempre scritto con uno stile personalissimo, asciutto e infiammante. Parole acuminate che non devono incasellarsi in un certo spazio storico, perché appartengono a ogni uomo di qualunque era. Sembra che ci sia ancora tanto da dire e troppo da sopportare in tutto questo materiale musicale. Undici canzoni di merda con la pioggia dentro è un album che supera le aspettative di un semplice progetto di cantautorato: anche per chi non appartiene alla generazione degli anni ’90, ci si sente tutti parte di un unico vortice culturale, che parte dalla voce sofferta di un cantautore che porta un’innovazione nella lirica e nell’elaborazione di stati d’animo immersi nel quotidiano comune. Testi annacquati che raccontano ferite generali e proiezioni personali; Canali è un narratore offuscato da un passato ormai inanimato, ma mai veramente sopito, che riporta agli anni del rodaggio di sperimentazioni melodiche care a band come Marlene Kuntz e Afterhours, dove l’interpretazione della parola ha lo stesso impatto e il medesimo valore di una nota. Una grande umanità gestisce brani e accordi che riportano indietro nel tempo, anche se è sempre la pioggia a governare la serenità dell’interiore. Radioattività sembra un ritorno puro a un suono immediato e martellante, come Messaggi a nessuno, che porta i segni di un naufragio introspettivo a tratti confortante.

Canali non si arrende al tempo che cambia ma sempre uguale, perché le tragedie dell’uomo rimangono le stesse e sembrano parte di un insieme di azioni che si ripetono nei decenni e condannate a tale destino. Piove, finalmente piove, forse la vera title-track dell’album: un inno liberatorio che ambisce a una purificazione che riporti tutto a zero. In questi frammenti, viene alla luce una personalità artistica che desta un’autorevolezza artistica imperitura, segno di un’esperienza musicale che negli ultimi vent’anni ha scritto una pagina di vissuto sociale che appare distante anni luce, ma si impianta in questo terzo millennio con la stessa voracità che serpeggiava alla fine degli anni ’90. Estaate descrive destinazioni immaginarie e nuvole invalicabili, come un senso istantaneo di fuga che sparisce in fretta. Quello che un tempo si chiamava “rock alternativo”, quando c’era poca moda e maggiore sostanza, non si può ormai comprendere davvero se non si è vissuto un certo periodo storico; oggi, tuttavia, esso si presenta assolutamente lucido e al passo coi tempi, perché rimane un angolo di tempo dimenticato in cui questo stile deve permanere. Undici ed Emilia parallela si alimentano in questi giri di vento, mantenendo un legame con una realtà muta e inadeguata. Non c’è nessuna verità assoluta da promuovere, perché è sufficiente descrivere l’uomo che vive la sua pioggia nel suo vissuto, nella sua penombra, a osservare i giorni.

Questa direzione si percepisce anche in Aria fredda del nord, che si proietta in un contesto melodico quasi western, al riparo da pioggia e vento, ma sempre a porre sullo stesso piano crisi sociali e politiche paragonabili a burrasche e tempeste. Fuochi supplementari e Danza della pioggia e del fuoco non trascinano verso direzioni differenti, ma trasporta un desiderio di convivenza con il vuoto: rimane salda un’anima punk che non si è mai tirata indietro, non si spaventa e ritorna costantemente. Mille non più di mille e Mandate bostik, in chiusura, sottolineano quel divario fra ricchi e ultimi, non nascondendo le guerre contemporanee, i migranti, i benpensanti; non si volge mai lo sguardo altrove, rimarcandosi lo sdegno e l’indignazione, che arrivano e restano.

In quest’intervista, Canali è sincero e schietto, non si preoccupa di essere al passo con questo tempo, mantiene una sua personale visione e guarda avanti, facendo quello che ha sempre fatto: scrivere canzoni.

“Undici canzoni di merda con la pioggia dentro” è un disco musicalmente agguerrito e oscuro, che porta con sé tante visioni personali della realtà: cosa hai voluto esprimere con questo nuovo album?

Sono stati sette anni di antinenza, per cui è un disco molto importante per me. Non avevo niente da esprimere e ogni volta che provavo a mettere parole nella musica che avevamo provato a fare. Forse non mi interessava scrivere o forse era il dramma da foglio bianco, ma anche la sensazione di aver scritto cose insuperabili o il fatto di non potersi superare, cose che mi hanno fatto incazzare. Se non avessi avuto la certezza che quest’album era il migliore sia dal punto di vista delle parole sia dal punto di vista delle atmosfere musicali, non sarebbe mai uscito perché vedo purtroppo troppa gente fare fuochi e fiamme e che, poi, si spegne pian piano realizzando album inutili. Sono ormai quarant’anni che frequento questo mondo e purtroppo è così: vedi realtà magnifiche spegnersi con dischi sempre più inutili e sempre più autoricaricanti. Questa cosa mi è pesata moltissimo. Tre anni fa abbiamo realizzato un album di cover, Perle per porci, per mettere fine a questa specie di digiuno che c’era, ma erano sempre cover, pezzi magnifici che nessuno conosceva, ma non roba nuova. Quando mi sono trovato con undici testi belli con undici pezzi che mi convincevano al 100%, per me è stato un sollievo notevole.

Tu appartieni a quello che, ritornando agli anni ’90, nasceva come rock alternativo. Dopo tutti questi anni, ti ritrovi nel circuito musicale indipendente che si è creato o ti sembra tutto piuttosto fugace e inconsistente?

Secondo me, la musica, alternativa o di nicchia che sia, è in ottima salute perché chi vale resta e chi non vale un cazzo, fa fuochi e fiamme per due stagioni e poi sparisce. In ogni caso, in giro c’è un sacco di roba bella. Se pensiamo agli ultimi vent’anni, i Verdena sono degni per sempre, così come I Tre Allegri Ragazzi Morti, così come Le Luci Della Centrale Elettrica, nonostante non esistano più. Infatti, sono curioso di sapere cosa farà in futuro Vasco Brondi. Tra i nuovi usciti, anche Lo Stato Sociale, che non è più un gruppo indie ma è uno dei progetti più intelligenti degli ultimi anni. Le cose che funzionano anche a livello di massa esistono, come anche Motta o gli Zen Circus. L’indie è in ottima salute e non è come quando, negli anni ’80, c’erano i Litfiba e i Diaframma e un universo punk-wave talmente di nicchia che nessuno se lo inculava.

Con tutta l’esperienza musicale che hai accumulato nel tempo, com’è nata l’idea di realizzare un progetto musicale che poi è sfociato nei Rossofuoco?

Io ho sempre fatto musica anche per me, infatti scrivo canzoni da quando ho 17 anni. Negli anni, col fatto di essere sempre in giro a fare il fonico con i Noir Désir in Francia e, allo stesso tempo, in giro con i C.S.I. che stavano prendendo vita, alla fine gli altri si sono comprati macchine e case, mentre io compravo biglietti aerei. A un certo punto, mentre vivevo in Francia, ho deciso di cominciare a scrivere come facevo negli anni ’70 e ’80, in cui vivevo delle situazioni che nessuno conosceva, ma che mi davano soddisfazioni, come con i Politrio o i Potemkin, gruppi marginali dell’area emiliana. Alla fine degli anni ’90, ho deciso che era ora di far uscire un disco perché, facendo parte di quella realtà che era il Consorzio dei Produttori Indipendenti, mi sono detto “se non faccio uscire un disco adesso, sono un idiota” e mi sono messo a realizzare un disco con tutti i miei amici dell’epoca, sia francesi sia italiani. Poi, in seguito, è stato naturale mettere su un gruppo che poi si è chiamato Rossofuoco, divenuto stabile negli anni.

Secondo te, c’è una maggiore sensibilità della musica italiana per la condizione politica che stiamo vivendo o è solo un modo per procacciare ascolti e arrivare al successo utilizzando scorciatoie?

A me sembra che questi siano gli anni del disimpegno nella musica indipendente italiana. Sono gli anni ottanta che tornano, in seguito all’impegno sociale degli anni ’70, a un certo puto è arrivata la roba facile degli anni ’80 e ’90. Mi sembra un pò che si stiano verificando i corsi e i ricorsi della Storia, nel nostro piccolo, una ricerca più del nuovo Venditti che del nuovo De Gregori, nel senso che è normale che sia così, anche perché non vedo fra la gente un certo spessore politico tranne che in qualche amico che continua imperterrito a buttarla in vacca, come Brunori o come possono essere gli Zen Circus, che comunque hanno sempre qualcosa di molto legato al sociale. 

Che ne pensi di Palermo, da un punto di vista culturale e musicale?

Sarà che ho un film nella testa, ma il problema di Palermo è il ciàffico! A parte lo scherzo, col fatto di frequentare pochissimo i social, col fatto che il cartaceo non esiste più e che la tv non la guardo, sinceramente sono molto poco al corrente di cosa succede nel mondo. Mi arrivano le cose di rimbalzo, quelle che fanno più male e che la gente finge di non vedere, ma non so come sia la situazione palermitana e siciliana in generale. Credo che se è come tutto il resto del mondo, non cambia un cazzo da nessuna parte, quindi nemmeno a Palermo o a Messina. Col fatto di essere in quei giorni in Sicilia, mi rimetterò al passo.

Come musicista, che periodo politico pensi stia vivendo l’Italia?

Sono i nuovi anni ’80, fra un pò arriveranno gli anni ’90 e un nuovo Berlusconi. Sinceramente, penso che si capisca dalle mie canzoni e dai miei testi che quello che gira nella mia testa è di stampo anarcoide, per cui un regime – senza che la parola regime sia esagerata – vale l’altro, nel senso che fanno cagare tutti e non è un discorso qualunquista, nel senso che chi detiene il potere e lo fa per tutelare gli interessi di qualcuno e lo gestisce in maniera sporca, perché se tendi a far leva sui pensieri più beceri nella gente per stare al potere, è qualcosa di veramente squallido.

Dopo questo ultimo disco, continuerai a fare il cantautore o ci sarà un altro periodo di pausa?

Guarda, io sto continuando a scrivere proprio per non smettere. Ci sono cose che mi frullano in testa, anche perché per questo album, proprio perché sono rimasto fermo per sette anni, ho deciso che tutto quello che mi rimaneva in testa, senza bisogno di annotarlo su fogli, meritava di arrivare al mio pubblico. Quindi, tutte le parole nell’album sono frutto di roba rimasta in testa e non appuntata su fogli, proprio perché se una frase, un concetto o un gioco di parole ti rimangono in testa, vuol dire che hanno un valore. Se hai bisogno di appuntartelo su un foglio di carta, vuol dire che è “dimenticabile”, per cui sto continuando ad utilizzare questo metodo, ma intanto prendo in mano la chitarra e scrivo cose, ma nella testa, perché nei fogli. Certo, se prendo una botta in testa e mi dimentico tutto, non ci sarà più un altro album!

Leave a Reply