Bianco e azzurro. L’immancabile simbolo arcaico dell’uomo-sole. Cinque signori di mezza età, Einstürzende Neubauten, i nuovi palazzi che crollano, collassano dal 1980, circa. Berlino e dintorni sono sempre lì.
“Alles in Allem” è un album confortante, bello, e per nulla disturbante. L’avanguardia che richiede ascolti è lasciata alle spalle, la sperimentazione violenta è cosa vecchia. C’hanno dato dentro dal 1980 al 1990, quando i capelli erano sparati in aria e i corpi magrissimi, i denti marci. Quando al posto degli strumenti musicali convenzionali prediligevano per il metallo da battere e i martelli pneumatici. Poi dal 1992 ad oggi i toni si sono placati, “Tabula Rasa” per l’appunto, la violenza di quei gesti provocatori è rimasta qua e là e la sperimentazione si è spostata su altri lidi.
Marchio di fabbrica, musica industriale, scarti della società negli album e sul palco, teatro e performance. Lunghi silenzi e pur sempre in attività.
“Alles in Allem” si presenta ad un pubblico tappato in casa dal lockdown con due videoclip.
In “Ten Grand Goldie” la band di Blixa Bargeld si diverte a posare elegantemente con i propri consueti abiti scuri. Invece, il pezzo che dà il nome all’album ha come protagonista il solo frontman, le palpebre truccate, e un organo che accompagna una melodia malinconica tra i dettagli dell’asfalto consumato.
L’album è un viaggio a Berlino, la città ricostruita. Un giro tra i quartieri e le rovine interiori della gente che vi abita.
Un viaggio fatto di musica suonata, stavolta, con meno metallo battuto. Come in “Möbliertes Lied”, che affascina per come rallenta il passo aprendo varchi accessibili ai più. Il contrario, forse, di “Zivilisatorisches Missgeschick”, l’unico eccesso rumorista che i nostri si sono concessi. Questa è nata dalle libere associazioni venute fuori da uno strano gioco di carte, il “Dave”, che viene utilizzato anche per costruire magicamente i testi delle canzoni. Stessa tecnica utilizzata anche per la notturna “Wedding”.
L’orchestrale “Taschen” si riferisce ai sacchi che i migranti portano con sé nell’attraversare le frontiere. Nel realizzarla la band aveva in mente, come al solito, di recarsi in una di quelle discariche dove poter recuperare materiali di scarto e sonorità adatte, ma per bizzarri problemi burocratici Bargeld e soci hanno modificato la loro classica tabella di marcia.
“Seven Screws” e “Grazer Damm” sono ottime ballate pop che ruotano attorno ai giri di basso di Alexander Hacke. La prima risente dell’influsso “bad seeds” ed esplora identità di genere indefinite, mentre la seconda, che si riferisce ad una grande arteria di Berlino, ritrova Blixa Bargeld alla chitarra a ridisegnare il classico suono alla Neubauten.
“Tempelhof” chiude, invece, l’esperienza dell’ascolto, rimandando a tratti alle atmosfere delicate e barocche di “Berlin” di Lou Reed, mentre si parla ancora della capitale tedesca, aeroporti in fase di stallo, arte e Roma.
“Alles in Allem” ci dice che Berlino ha di nuovo la sua voce, quella delle crepe sui muri, dell’asfalto da rifare, delle discariche e del caos determinato dal crollo.
Tutto il resto è desiderio. “Sehnsucht!”