Non ricordo bene se fosse un pomeriggio di sabato oppure una mattina di sciopero a scuola, quella volta che entrai da Ricordi. Allora si trovava sotto i portici di Via Ruggiero Settimo. Da quando avevo quattordici anni, i negozi di dischi di Palermo erano diventati il mio rifugio, visto che la mia popolarità lasciava parecchio a desiderare. Brutto (e lo sono ancora), timido da fare paura, trascorrevo i pomeriggi andando in giro con il mio amico P.P., temibile consumatore di tegolini del Mulino Bianco e altro esemplare dalla vita sociale scintillante.
Non so se per il nome di Brian Eno che mi piccavo di conoscere per averlo letto in qualche rivista musicale, senza avere mai sentito nulla dei suoi dischi, oppure per quello di David Byrne – dei Talking Heads avevo visto un loro video a Mister Fantasy, la trasmissione tv – ma sta di fatto che, senza sapere cosa mi stesse aspettando, mi portai a casa My life in The Bush of Ghosts. Per me, comprare dischi in quel modo era una specie di appuntamento al buio. Certe volte andava bene, altre volte prendevi enormi cantonate.
Nel caso di Eno e Byrne, andò bene.
E così, abbandonando il rassicurante modo del progressive, in cui avevo vissuto cullandomi di unifauni e lati oscuri della luna, cominciai una nuova avventura.
Per Eno che aveva già prodotto i dischi precedenti dei Talking Heads (in quegli anni si era anche occupato dei Devo e degli Ultravox), My Life doveva essere la seconda tappa di un progetto, del quale la prima era stata Fear of Music e la terza sarebbe stata Remain in the Light.
Invece il disco, già pronto, rimase bloccato per una serie di problemi legali relativi all’utilizzo di una traccia che conteneva la voce di una guaritrice americana, nel frattempo morta, e vide la luce solo nel 1981, in linea cronologia dopo quello che doveva essere l’atto conclusivo della collaborazione con i Talking Heads.
Il titolo è preso da un libro dello scrittore nigeriano Amos Tutuola: una raccolta di racconti ambientati in una dimensione a metà strada tra la realtà, il sogno e la favola, riferendosi con il termine Ghosts agli Orisha della religione animista – entità invisibili legate ai luoghi, agli animali, alle piante – tipica di quella zona dell’Africa e che i primi schiavi deportati portarono con sé nei nel nuovo mondo, specie in Brasile o in alcuni paesi dell’America Latina, dove sotto nomi diversi, il culto si è tramandato fino ai giorni nostri.
Fin dall’inizio saltellante di America’s waiting si capisce che l’idea di E & B è quella di introdurre un elemento di disturbo, che è in realtà la novità stessa del disco, sdoganando una volta e per tutte quella che oggi chiamiamo musica world, allontanandola dai flauti andini o dalle cornamuse scozzesi, e avvicinandola alle nuove sonorità della new wave. Ben prima di Peter Gabriel e della sua etichetta Real World, My Life si pone come l’esplorazione di due musicisti occidentali nel cuore delle radici della musica, alla ricerca della sua natura ancestrale. C’è molto di quello che i due stavano producendo con i TH, ma anche di Robert Fripp con Under Heavy Manners, dei Can di Saw Delight o di Holger Czukay con i Canaxis, insieme a Steve Reich e i suoi studi sui patterns percussivi. Ma qui sono i Ghosts, gli spiriti, a fare la differenza.
Come negli esperimenti di Psicofonia, quando si lascia la radio accesa su una frequenza deserta in attesa di ascoltare i richiami dell’oltretomba che, come creature degli abissi, ogni tanto vengono alla superfice, così, in My Life sono le voci ad essere protagoniste. Frammenti di trasmissioni radio, canti, discorsi, invocazioni per esorcizzare il diavolo, diventano parti integranti dei brani musicali, emergono o scompaiono proprio come le voci di fantasmi evocati dai due artisti. È il passo dello strumentista che lascia il palcoscenico allo sperimentatore. È la scoperta di una nuova forma di espressione musicale, non più legata solo alla capacità di suonare uno strumento, ma a quella di interagire con mezzi che erano ritenuti solo supporti passivi, come la radio, in modo da tirarne fuori qualcosa di nuovo, mai sentito prima.
Non è più necessario, secondo E & B, essere un virtuoso di uno strumento. È possibile creare musica anche con dei registratori a bobina Revox, un microfono e perché no, una radio o un televisore aperti come finestre sul mondo che ci sta intorno. Ed è proprio al mondo, alla ricerca di un linguaggio unico, che possa trascendere i confini tra generi musicali che questo disco è rivolto. Un processo di destrutturazione e di ricostruzione che avviene in un preciso momento storico in cui la musica popolare, pop o rock o come la si voglia chiamare, cerca di reinventare il proprio lessico musicale, dopo l’azzeramento del passato voluto dalla rivoluzione copernicana della musica punk e le sue troppe generiche semplificazioni.
Sarà la musica Hip Hop nelle sue seguenti declinazioni a portare avanti l’eredità di My life. Con alcune differenze. Non esiste più la distinzione convenzionale tra struttura musicale e testo, perché sia il testo – urlato o recitato in modo ritmico, quasi a sostituire le percussioni – che gli stessi campionamenti diventeranno struttura musicale, mezzo e fine ultimo.
My Life rimane ancora un lavoro tradizionale, legato alla logica di un esecutore musicista, o comunque alla presenza di musicisti, benché la presenza di Eno, che di sicuro non è uno strumentista in senso tradizionale, renda piuttosto sfumati i limiti stessi. Il futuro riserverà un approccio diverso alle fonti, non più mediate, ma più invasivo, tramite un lavoro di taglia e cuci di suoni o sequenze musicali preesistenti che crea qualcosa di nuovo, rendendo superfluo l’apporto del musicista nel senso più classico del termine.
Nasce da qui la nuova rivoluzione: diventare creatore e fruitore di musica al tempo stesso, senza intermediazioni, in una logica anarchica e al tempo stesso autocratica della musica. Bastano due giradischi per creare una base e un microfono e chiunque può essere protagonista. Ed è un peccato che alla fine il mercato musicale riesca a colonizzare anche la nuova scena, trasformandola in semplice mercificazione musicale.
Dopo My Life, le strade dei nostri si separeranno. Eno continuerà con la sua idea di musica ambient, qualcosa che si fondi totalmente con la realtà, facendone parte senza però richiedere l’ascolto attivo. Forse un passo indietro, rispetto agli scenari che il nostro disco aveva fatto intravedere, ma comunque in linea con il personaggio.
Byrne, dopo avere raggiunto un successo di pubblico e critica con i Talking Heads, inizierà parallelamente alla sua carriera solista – che mostrerà, però, alcuni limiti e mai raggiungerà le vette creative che aveva toccato con il suo gruppo – l’attività di promotore di musica world, con la sua etichetta Luaka Bop, andando a scoprire o a ri-scoprire gemme perdute o dimenticate.
Quando le loro strade torneranno a incrociarsi nel 2008, ne uscirà fuori Everything That Happens Will Happen Today, un classico disco di quello che era chiamato una volta art rock. Lasciando l’amaro in bocca a chi si aspettava un degno seguito a al capolavoro del 1981.
Ma il tempo, come direbbe Mick Jagger, is on their side, e una nuova collaborazione è sempre possibile.
Speriamo bene.