Ci voleva una pandemia a livello globale per arrestare il Never Ending Tour, ma non certo a stoppare la verve creativa – che pareva invero essersi sopita – del quasi ottantenne menestrello di Duluth.
Dopo (non) aver ritirato il tanto agognato, almeno dai suoi estimatori, premio Nobel, e dopo aver pubblicato un profluvio di cover attingendo a piene mani alla tradizione americana degli anni della golden age, su cui il nostro pareva essersi “bloccato”, a mezzanotte del 27 marzo del corrente anno bisesto (anno funesto!), ecco che fa la sua comparsa il primo inedito dal 2012, Murder Most Fouls, singolo dalla poderosa durata di ben 16 minuti e 55 secondi!
Si tratta di una lenta cavalcata attraverso il secolo breve, zeppa di citazioni, di nomi e di eventi che nel bene e nel male hanno lasciato il segno, gracchiati alla sua maniera e accompagnati da suadenti note di pianoforte.
Il 17 aprile è la volta di I Contain Multitudes, altro pezzo straripante di (auto)riferimenti, a cominciare dal titolo (Walt Whitman), autoironico nei testi e musicalmente molto classico.
È con l’uscita del terzo singolo, False Prophet, che viene annunciato anche il nuovo album; in False Prophet le note acquistano già maggiore centralità: si tratta di un blues molto marcato e anche un po’ sinistro, in cui la voce di Dylan si fa parecchio rauca e ruvida.
Rough And Rowdy Ways, l’album, nel suo complesso, non si scosta troppo dalle atmosfere cui Bobby ci ha abituato negli ultimi anni.
Diciamoci la verità, è pressoché riduttivo giudicare un album di Dylan guardando alle sole musiche e non ai testi (che ancora una volta danno ragione ai giudici della nota fondazione svedese), cui in questa sede – per ovvi motivi di spazio – non ci si può dedicare come meritano.
Ai primi – e comunque mai sufficienti – ascolti, le atmosfere sonore dell’album sembrano riecheggiare quelle assai rarefatte dell’ultima zampata dylaniana degli anni ’90, quel Time Out Of Mind che ancora oggi mantiene inalterato il suo status di pietra miliare.
A dispetto del menzionato precedente, però, Rough And Rowdy Ways scorre piacevolmente senza intoppi ma nemmeno guizzi particolarmente degni di nota (solo arrivato a Key West mi è capitato di alzare la testa dal foglio), alternando ballatone dal sapore dolciastro (Mother of Muses, I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You) a ritmi blues più o meno marcati (My Own Version Of You, Goodbye Jimmy Reed), tutti pezzi in cui la musica funge quasi da comparsa, e mai da padrona, rispetto ad una voce narrante collocata, da sola, al centro dell’obiettivo.
Key West, gemma che non ti aspetti, è invece la quintessenza dell’ultima produzione dylaniana, pezzo di chiusura che meglio di tutti è sintesi di parole e musica, sognante e malinconica ad un tempo, che riecheggia atmosfere e luoghi presi a prestito dal realismo magico.
In Rete vi sarà sicuramente capitato di leggere, ancora una volta, del nuovo capolavoro dylaniano, ma – giunti in fondo al disco – la sensazione è quella di un album più parlato che suonato, abbastanza prolisso e verboso, tutto sommato non troppo distante dalle atmosfere e dai suoni che pervadono la terza età di Bobby alla stessa stregua di una comfort zone di sentieri già abbondantemente battuti, da cui uscire è peccato (in senso biblico), in un mondo oggi più che mai privo di certezze e punti di riferimento.
Lascio pure ai posteri l’ardua e definitiva sentenza, ma a me, ascoltatore contemporaneo, pare soltanto un altro buon album di Frank Sinatra… ops di Dylan – chiedo venia – ed è già tanto, per carità (a dispetto della veneranda età), di sicuro una spanna inferiore – senza per forza scomodare le ingombranti produzioni degli anni ’60 e ’70 – rispetto ad album più recenti come Modern Times o Tempest i quali, almeno a livello musicale, si collocano decisamente su ben altri livelli.