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“Damaged” dei Black Flag, ieri come oggi

By marzo 26, 2020 No Comments

A “Damaged” dei Black Flag sono bastati 34 minuti per conquistare un posto nella storia. Veloce, arrabbiato e sincero, riesce ancora a coglierti di sorpresa. Non ci sono dubbi sul fatto che sia un disco iconico, cui va riconosciuto il merito di aver cristallizzato l’hardcore. Uscito nel 1981, arrivò dopo l’ep del 1979 “Nervous Breakdown“, frutto del lavoro di una line-up diversa: il cantante Keith Morris e il batterista Brian Migsol, infatti, lasciarono poco dopo la band.

Potremmo riassumere gli esordi dei Black Flag con un famoso modo di dire: “Bene o male, purché se ne parli”. La loro popolarità, infatti, già prima dell’uscita di Damaged crebbe con velocità, ma altrettanto velocemente venne accompagnata da esibizioni live in cui le risse erano una parte integrante, tanto quanto il sound check. Il fatto di suonare in tanti show gli diede tanto la possibilità di abituare il pubblico al loro sound, quanto il vantaggio di costruire, a poco a poco, quello stesso sound insieme agli spettatori. Un po’ come se stessero lì a dire: “Siamo i Black Flag e suoniamo così, che vi piaccia o meno. Ma sappiamo che vi piace”.

Damaged attira l’attenzione con 15 canzoni stipate in poco più di mezz’ora, dalle quali non è possibile scappare. La voce è quella di Henry Rollins che, prima di entrare nel gruppo, era un semplice fan. Niente di strano in tutto questo, perché il punk ci ha sempre insegnato una cosa: “Se loro lo fanno, allora posso farlo anche io”. Nei racconti di chi ha visto dal vivo gli show a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, ci sono sempre le stesse parole: potenti, intensi, incredibili. Prima di Rollins, alla voce c’era Dez Cadena, che decise di dedicarsi alla chitarra. Così il posto vacante fu di Henry, che passò da un giorno all’altro dal suo lavoro al negozio di gelati Häagen-Dazs ai Black Flag e alla California.

Il periodo in cui tutto questo nacque fu cruciale – e non soltanto dal punto di vista musicale. Intorno ai Black Flag gravitavano band diverse ma, in un certo qual modo, complementari: dai Minor Threat, con la loro etica straight edge, ai Bad Brains, con il loro sound ipnotico. Il primo mattone poggiato dai Black Flag servì a costruire un edificio con infiniti piani, dal thrash metal al grindcore, passando attraverso lo youth crew.

Oggi, quando ascoltiamo Damaged, ci prendiamo la briga di studiarlo come più ci piace, passando dal punto di vista politico a quello antropologico, ma ai tempi in cui uscì non c’erano tutte queste astruse costruzioni che ci piace creare nell’epoca contemporanea. Non ce n’era bisogno. Questo non ne sminuisce il significato, bensì ne mette in luce l’aspetto più spontaneo.

Nonostante già prima dell’arrivo di Henry Rollins i Black Flag avessero raggiunto la notorietà, la sua voce riuscì a elevare ancora di più la loro cieca fiducia nel concetto di fast and loud. Rollins era carico di rabbia e sempre sul punto di esplodere ma, allo stesso tempo, riusciva a comunicare una straordinaria empatia.

“My name’s Henry
And you’re here with me now
My life
It’s a song”
(Damaged I)

Sono tanti gli aggettivi in grado di descrivere “Damaged” e uno dei più significativi è “caotico”. Il caos è la cifra stilistica delle tracce, ma attenzione a come lo si interpreta. Non si tratta di una confusione senza capo né coda ma, piuttosto, di un ordinato disordine. Così, la chitarra di Greg Ginn sa regalare alcuni tecnicismi di tutto rispetto, ma riesce anche ad abbandonarsi a momenti di eloquente follia. Il basso di Chuck Dukowski è ruvido e spietato, con il suo approccio rudimentale. La chitarra di Cadena e la batteria di Robo (al secolo Roberto Valverde) hanno il compito di mantenere una certa struttura. E poi, naturalmente, c’è Henry, ma di lui abbiamo già parlato (e torneremo a parlarne, non temete).

Il disco si apre con la celeberrima “Rise Above”, un invito all’azione per “elevarsi al di sopra” e non essere sopraffatti dal sistema (“We are tired of your abuse / Try to stop us but it’s no use”). Non mancano alcuni momenti più “tradizionali”, come “TV Party“, che abbandona per qualche secondo l’assetto da sommossa per vestire quello della normalità, fatta di televisione e birra (“We’ve got nothing better to do / Than watch TV and have a couple of brews”). Nichilismo, alienazione e insofferenza verso il conformismo alimentano le canzoni, una dopo l’altra.

La velocissima “Gimme Gimme Gimme” chiarisce abbastanza bene come stanno le cose, qualora qualcuno avesse ancora avuto dei dubbi: “Standing here like a loaded gun/ Waiting to go off/ I’ve got nothing to do but/ Shoot my mouth off”. Quel “nothing to do” è un leitmotiv che torna in “Six Pack” (“I got a six-pack / And nothing to do / I’ve got a six-pack / And I don’t need you).

Sì, i Flag erano una pistola carica, pronta a sparare.

A “Spray Paint” necessitano un paio di secondi per decollare e meno di 35 per compiere un viaggio di andata e ritorno, con i cori e la batteria di Robo che picchia giù duro. Al centro di tutto c’è sempre Henry Rollins, che riesce a trasformare in voce quell’insieme di fastidio e sofferenza che rende impossibile distogliere lo sguardo (e le orecchie). Canzoni come “Damaged I” lo mettono completamente a nudo con versi brevi, laconici e incisivi (“Damaged by you/ Damaged by me/ I’m confused/ Confused/ Don’t wanna be confused”).

“Damaged” è un’eccezione che conferma la regola: è un libro che puoi giudicare dalla copertina, con Henry che da’ un bel pugno all’immagine di sé stesso riflessa allo specchio. È una società che si guarda e non si piace, che scalpita e cerca una via di uscita. La cerca e, nel frattempo, pesta i piedi e batte i pugni fino a farsi sanguinare le nocche, per la rabbia (e per far passare il tempo).

È etica punk e d.i.y., è una solida scultura in pietra. Pur essendo uscito quasi 40 anni fa, quel disco non ha preso neanche un granello di polvere: possiamo tranquillamente dire che ha fatto egregiamente il suo dovere.

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