C’è chi necessita di vent’anni di carriera per partorire cinque album, e chi invece ha bisogno di un solo anno, come nel caso dei King Gizzard & The Lizard Wizard.
Sì, avete letto bene. Cinque album usciti tra il febbraio e il dicembre dello scorso 2017, un caso più unico che raro che, a mia memoria, non ha precedenti.
Per chi non li avesse mai sentiti nominare, i succitati King Gizzard sono una formazione australiana originaria di Melbourne di sette elementi e capitanata dal polistrumentista Stu Mackenzie. Pur essendo giovanissimi d’età (poco meno che trentenni) ed all’attivo dal solo 2011, si sono rapidamente smarcati dalla nicchia di pochi seguaci in favore di un vasto pubblico di grandi appassionati, forti sia di strabilianti performance live che di una incessante produzione in studio.
Quando mi è stato chiesto di scrivere su questi cinque album, non avendoli ancora ascoltati e conoscendone solo un paio della discografia precedente, mi sono subito chiesto come sarebbe stato possibile non imbattersi al loro interno in ripetizioni ed autocitazioni, ma ho dovuto ricredermi e lo scetticismo ha lasciato posto allo stupore: li conoscevo come una band ben strutturata di matrice psychedelic e space rock, ma qui si è andato parecchio oltre.
Flying Microtonal Banana apre le danze di questa iperattività compositiva dei sette australiani con un’ambiziosa dichiarazione d’intenti: il sottotitolo del disco recita infatti “Explorations Into Microtonal Tuning, Volume 1”, ed è per l’appunto un esercizio di stile sulla musica microtonale sviluppato lungo i differenti ambienti sonori delle nove tracce che lo compongono. Basta ascoltare la sequenza dei primi brani per farsi un’idea chiara del percorso eclettico che si para davanti: Rattlesnake, in apertura, si propone con tutti gli elementi space rock che hanno caratterizzato la band in precedenza, riuscendo a confluire subito dopo nell’inaspettata bossa-fusion di Melting e a fare arrivare esterrefatti alla psichedelica Sleep Drifter senza dar modo di capire come tutto ciò sia potuto accadere nell’arco di venticinque minuti circa. Ed è solo la prima metà dell’album.
Trait d’union dalla prima all’ultima traccia è l’uso di accordature tipiche della musica indiana e l’utilizzo di strumenti tradizionali asiatici come le tabla, la zurna e, chiaramente, il sitar.
A soli quattro mesi di distanza esce Murder Of The Universe, un concept album in chiave fantasy suddiviso in tre capitoli e, di fatto, composto soltanto da sei brani di media durata e da numerosissimi brevi interludi.
A dare forza alla forma romanzo del tutto interviene l’ipnotica voce di Leah Senior, folk singer connazionale dei King Gizzard, qui in veste di narratrice e guida spirituale del disco.
Stilisticamente ci troviamo davanti ad un violento disco hard rock connotato da tempi tiratissimi ed irregolari e continue reprise delle melodie, che passa dallo stoner (Altered Beast IV) al punk californiano à la Dead Kennedys (The Balrog) sino ad approdare a vero e prorio metal (Vomit Coffin).
La sensazione che si ha a fine ascolto è che ti abbiano riempito di botte, ma che siano state terapeutiche.
Giusto il tempo di inghiottire il boccone che arriva Sketches Of Brunwick East, tanto vicino quanto lontano. In questo caso la band si avvale della collaborazione con i Mild High Club, un collettivo artistico-musicale di Chicago con a capo il colto e raffinato Alex Brettin. Nella stesura di
questo terzo lavoro molto si deve sicuramente alle influenze jazz pop di questa formazione. Ciò non toglie che ad ascoltarlo, e nell’immediato paragone con Murder Of The Universe, viene da pensare che i King Gizzard dopo un brutto periodo di stress siano andati in vacanza al mare. Ed è proprio nella commistione tra queste atmosfere soft lounge e l’innata attitudine rock dei sette australiani che si coglie sino a che punto essi siano dei musicisti senza confini delimitati. L’album omaggia sia l’easy listening più canonico (con strumentali quali Rolling Stoned o Sketches Of Brunswick East II) che quello di scuola piu alternative e contemporanea, con sonorità à la The Flaming Lips o Badly Drawn Boy (Countdown) o il Beck “tropicale” di Mutations (The Book), il tutto rispettando sempre la forma di concept e senza fare a meno di melodie articolate e farcite, stavolta, di campionamenti jazz e dissonanze. Indubbiamente rappresenta l’apice del loro poliedricità.
Chiusasi la parentesi estiva e solare condivisa con i Mild High Club, i nostri concludono in bellezza l’anno prolifico tornando in piena autonomia con altri due lavori rilasciati uno a novembre e l’altro a dicembre. Il primo, Polygondwanaland, viene omaggiato ai fan in free download sulla loro pagina su Bandcamp e, solo successivamente, ne viene stampata una limited edition su vinile.
L’opening track, Crumbling Castle, è sufficientemente esplicativa per descriverlo per intero: una suite di quasi undici minuti di grande complessità strutturale che recupera le armonie indianeggianti di Flying Microtonal Banana innestando elementi progressive tipici dei Jetrho Tull (probabilmente anche per l’uso del flauto traverso) e che in fase conclusiva riesce contestualmente ad omaggiare per pochi secondi Brain Damage dei Pink Floyd e trasformarsi in una cupa marcia doom metal.
Il secondo (ed ultimo), Gumboot Soup, sembra quasi un “riassunto delle puntate precedenti” tanta è la varietà stilistica al suo interno: l’incipit è nuovamente soft lounge con Beginner’s Luck, prosegue con la psichedelica Greenhouse Heat Death, si irrigidisce sullo stoner-metal di The Great Chain Of Being sino a recuperare lo smooth jazz con The Wheel. Nonostante ciò musicalmente non appare autoreferenziale, ma esprime una rinnovata originalità. E questo ha dell’incredibile.
La mia personale opinione su questi cinque dischi non riesce a non essere complessiva, ed è che nel loro contenuto squisitamente stilistico appaiano enciclopedici. Li ho assimilati tutti di fila e non riuscirei più a concepirne il loro ascolto diversamente, consigliando a chiunque ami la musica di fare altrettanto. La domanda che mi pongo è come sia possibile che dei musicisti tutto sommato così giovani abbiano un background musicale tanto vasto, perché è indubbio che i riferimenti siano molteplici, malgrado il loro talento creativo sia ancora maggiore. La risposta, forse, è che sono figli degli anni zero, dove la rapidità d’assimilazione è esponenziale e la possibilità di conoscenza è pressoché infinita. Ma a differenza di tanti altri gruppi coevi, nei King Gizzard & The Lizard Wizard c’è della genialità e (indiscutibilmente) una sana ed irrefrenabile voglia di suonare.