“There is No Year” è il terzo capitolo della saga musicale firmata dagli Algiers, che arriva portandosi addosso il peso dei due lavori precedenti: il self-titled d’esordio del 2015 e “The Underside of Power”, datato 2017. Per poter capire meglio il nuovo album è utile fare questi due passi indietro, perché una delle chiavi di lettura si trova proprio in ciò che rende simili e al tempo stesso differenti questi tre dischi.
Per il terzo lavoro, la band fa propri il titolo e le atmosfere di un libro di Blake Butler: i protagonisti del racconto fronteggiano i loro “demoni”, esattamente come fanno gli Algiers attraverso la musica.
I loro dischi mescolano post-punk, gospel, blues e industrial. C’è la potenza del suono Motown, c’è il furore del proto-punk alla MC5 e c’è una componente oscuramente gotica. A mettere insieme i pezzi ci pensa la voce del frontman, Franklin James Fisher.
Gli 11 brani di “There is No Year” (prodotto da Ben Greenberg e Randall Dunn), messi a confronto con i lavori precedenti degli Algiers, sembrano essere passati attraverso un processo di semplificazione. Fin dalla prima traccia (la title track “There is No Year”) si avverte la presenza dell’elettronica, ma quella presenza assume una modalità a tratti più “pulita” rispetto a quello a cui siamo stati abituati fino adesso. Si avverte, in più di un’occasione, un certo mood alla Depeche Mode, di cui peraltro gli Algiers sono stati compagni di tour.
L’inizio vuole essere di impatto: “Dispossession” è un inno che parte dal petto per annunciare l’imminente arrivo della libertà. Il problema, però, è che non ci è dato sapere né quando né in che modo arriverà, quella libertà. “Hour of the Furnaces” si palesa con la sua anima industrial e lascia spazio a “Losing is Ours”, una ballata poetica, sì, ma sempre in chiave noir.
È a questo punto che avviene il passaggio alla parte centrale del disco, fatta di tracce che si srotolano tra synth e frenetici assoli di sax (“Unoccupied“, “Chaka“). Da qui si passa ai cori di “Wait for the Sounds”, un racconto dark in chiave soul, seguito da “Repeating Night”, meno vibrante rispetto agli altri. A traghettarci verso la conclusione sono “We Can’t Be Found” e “Nothing Bloomed”: il primo lo fa con la melodia, il secondo con una componente poetica e riflessiva.
La resa dei conti finale è affidata a “Void”, ed è qui che ci ricordiamo i motivi per cui amiamo questa band: la sua irruenza, la rabbia incanalata in versi cinicamente realisti, la potenza delle parole. È bello ritrovarla, quell’irruenza, almeno alla fine.
Gli Algiers lanciano gli ascoltatori nella realtà, frenetica e troppo spesso ingiusta. Parlano di politica, di antirazzismo, anticapitalismo e antifascismo. Affascinano, indubbiamente. Franklin James Fisher osserva il mondo che gli brucia intorno e mette in guardia dai suoi pericoli, tra cori e visioni apocalittiche. Lui, però, è un profeta atipico: non ha una risposta, sa solo suscitare domande.
Streets are raining fire/ We’ll be gone now any day
L’ascolto di “There is No Year” ci restituisce un’immagine degli Algiers un po’ differente. Non c’è spazio per la ferita ancora sanguinante di “Blood”, non si vedono le lacrime di “Cry of the Martyrs”. La band, che in passato si è messa a nudo fino a mostrare la carne viva, ora sembra essersi in parte rivestita. Continua a credere fortemente in ciò che fa ma, forse, in questo terzo disco avrebbe dovuto darci anche qualche risposta, invece di lasciarci con tanti dubbi irrisolti.