I Flaming Lips fanno la stessa musica dal 1997, dice qualcuno.
Ai tempi usciva “Zaireeka”, ve lo ricordate? Il quadruplo cd da ascoltare contemporaneamente attraverso quattro sorgenti stereo. Un trip d’altri tempi che bisognava convincere gli amici a venire a casa tua con mangianastri e stereo a batteria per condividere insieme un’esperienza di ascolto a dir poco straniante.
A quei tempi Wayne Coyne e soci avevano deciso di appendere al chiodo il rock alternative con le sue chitarre ruvide e gli atteggiamenti irriverenti, per approdare alla musica colta. Ciò li avrebbe condotti al pop di “The Soft Bulletin” e al best seller “Yoshimi Battles The Pink Robots”. Da lì in poi show sgargianti di ogni tipo fino ad arrivare agli odierni Space Bubble concert, che sistemano in maniera surreale e provocatoria il diffusissimo problema dei live.
Oggi, col passare degli anni e superati abbondantemente i cinquanta, si ha evidentemente il bisogno di parlare di cose serie, ma sempre alla maniera dei Flaming Lips. Colori, unicorni, dinosauri sono prontamente accolti nei loro album, eppure dal 2009 a questa parte i toni dei loro dischi sono diventati più oscuri e riflessivi.
Lavori come “Embryonic”, “The Terror”, “7 Skies H3” proponevano così una psichedelia spesso paranoica e malinconica. Oggi, i Flaming Lips continuano a percorrere le strade del pop psichedelico, non sconvolgendo l’ascoltatore con trovate troppo bizzarre – difficilmente si possono superare le sei ore di “Strobo Trip” (2011) – ma confermano la cura nei dettagli.
Figli di Barrett, dei Beatles lisergici, ma anche del glam più acustico, decidono qui di confezionare il loro personale album dei ricordi (psichedelico) che ruota attorno alla figura dell’“American Head”.
L’album si muove in equilibrio precario tra tematiche che affrontano errori di gioventù, amici scomparsi, incidenti d’auto, sottolineando la commemorazione ora e la fortuna di essere sopravvissuti poi, nonostante tutto, quasi per miracolo. “All your friends are gone”, canta infatti Wayne Coyne in “Will You Return / When You Come Down”, il singolo uscito alla fine di un’estate decisamente strana, di pseudo rinascita. “Brother Eye” è un’ode ad un fratello che non c’è più, mentre il dolore si placa ricordandone la nascita, in questa lotta continua tra i colori e l’oscurità. Poi prendono piede delle confessioni, direttamente fuoriuscite dalla bizzarra biografia dei nostri. È questo il caso di “Mother, Please Don’t Be Sad”, che ricorda la prima volta che Wayne Coyne ebbe paura di morire, durante una rapina a mano armata nel supermercato in cui lavorava. Un’altra, “You n Me Sellin’ Weed”, parla invece di quando il giovane Wayne, spacciatore d’erba per arrotondare, scampò alla tragica fine di cui fu protagonista un suo coetaneo, rinchiuso in carcere e morto suicida.
Il ricordo si fa anche intimo quando ci si riferisce alla parte di sé che non c’è più. Si ritorna all’infanzia, che permetteva alla fantasia di oltrepassare i propri limiti, “Dinosaurs On The Mountain”, alla giovinezza senza freni, “At The Movies On Quaaludes”, “Mother I’ve Taken Lsd”, dove si evince il significato del titolo dell’album.
“American Head” è la vita e la morte di una giovane esistenza americana. Non è un caso che head faccia proprio rima con dead. Si parla di questo, sopravvivere, farsi spettatori, scampare alla polizia pronta a spararti durante una fuga, “God And The Policeman”, o alla religione che ti vuole rendere suo ostaggio, “My Religion Is You”.
Alla fine dei conti, sfogliando questo album dei ricordi, si capisce che la vita può essere pericolosamente attorcigliata e che la musica può salvarti e permetterti di raccontarla.
P.S.: I Flaming Lips non fanno per nulla la solita musica