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Il 2020, I Mortali e il tour con Colapesce: intervista ad Antonio Di Martino

By luglio 21, 2020 No Comments

Cosa sta succedendo in questo 2020?“. Inizia così, con una domanda complessa nella sua semplicità, la chiacchierata con Antonio Di Martino. Che l’intervista cominciasse in questo modo, era inevitabile, vista l’eccezionalità degli eventi che abbiamo vissuto nei mesi scorsi, e continuiamo a vivere oggi.

All’inizio del mese di giugno è uscito “I Mortali”, il nuovo disco creato insieme a Colapesce (al secolo Lorenzo Urciullo). Nel mese di agosto andranno in tour, con sette date in diverse parti d’Italia.

Abbiamo parlato del nuovo album e di musica, ma non solo.

Cosa sta succedendo in questo 2020?

«Per noi esseri umani, succede quello che nessuno si immaginava. Se ti parlo da musicista, la tragedia è di natura diversa, ma è tale, perché molti lavoratori dello spettacolo non sanno se torneranno a fare il loro lavoro. Parlo soprattutto dei tecnici, di chi sta dietro, ma non solo. Spesso si dimentica che un settore molto colpito è quello dell’underground, dal quale proveniamo io e Lorenzo (Colapesce, ndr): un settore fatto di musicisti e scrittori di canzoni che, nel loro privato, cercano di sperimentare cose da portare in giro sui loro furgoni, con un sacco di problemi, che esistevano già prima dell’emergenza Covid. L’undergound è un sistema, una “officina” che sviluppa quella che sarà la musica del futuro. Se l’underground è in crisi, allora sarà in crisi la musica che verrà nei prossimi anni».

Quando è iniziata l’emergenza, “I Mortali” era proprio in uscita: come avete deciso di procedere?

«All’inizio abbiamo solo rinviato l’uscita di un singolo, non pensavamo che il disco dovesse slittare. Tutto è avvenuto nel giro di pochi giorni. Ci siamo accorti che, in qualche modo, dovevamo riprogrammare tutto, perché non avrebbe avuto senso farlo uscire in quel momento, abbiamo rimandato di un paio di mesi. Ci era stato proposto di rinviare tutto a emergenza finita, ma non ce la sentivamo di fermarci, ci sembrava un bel segnale fare uscire il disco, perché è un progetto molto particolare. Non è un mio disco solista, né un disco solista di Lorenzo, quindi in qualche modo potevamo anche permetterci di rischiare, con l’uscita, senza rimandarlo. È come se questo disco fotografasse i nostri ultimi due anni, quindi rimandarne l’uscita avrebbe significato rimandare lo sviluppo di questa fotografia, allungando molto i tempi. L’abbiamo fatto uscire e abbiamo fatto bene, è stato giusto seguire l’istinto».

Parliamo un po’ della genesi de “I Mortali”.

«La scrittura dei pezzi è nata negli ultimi anni, ma l’idea era nell’aria da molto tempo. Io e Lorenzo ci siamo incontrati per la prima volta nei panni di cantautori con le band intorno al 2011. Eravamo a Mazara del Vallo, al festival “Rock The Casbah”. Lì ho scoperto Colapesce, lui ha scoperto Dimartino. Da lì le carriere si sono separate, ognuno ha fatto i suoi dischi, ogni tanto ci incontravamo. Nel 2015 abbiamo fatto un concerto insieme a Milano, al Carroponte, in cui io facevo i suoi pezzi e lui faceva i miei pezzi. Subito dopo abbiamo cominciato a scrivere insieme canzoni per altri, quindi in realtà è stato un processo molto graduale che ci ha avvicinato, ci siamo resi conto che scrivere insieme era una cosa che ci univa in modo istintivo, ci dava anche un grado di libertà, in qualche modo. Questa cosa ha fatto scattare l’idea di scrivere un disco a quattro mani».

C’è qualcosa che vi ha influenzato, per la stesura dei brani?

«A livello musicale non ci siamo dati riferimenti precisi. Volevamo fare un bel disco pieno di canzoni, ogni canzone doveva avere un peso, doveva racchiudere il senso che deve avere una canzone. Ci siamo detti spesso che una canzone, in qualche modo, deve mettere dei dubbi all’ascoltatore, stimolarlo a porsi delle domande. Non deve dare risposte. Questo è ciò che entrambi ricerchiamo. A me piacciono i cantautori che mettono a disagio: quelli che, ogni volta che li ascolto o sento il passaggio di una frase, generano una sensazione forte. In qualche modo mi affeziono a quel disequilibrio che creano, all’imperfezione. Nel disco volevamo 10 canzoni pop con delle imperfezioni, con delle caratteristiche che non le lasciassero solo scorrere in maniera tranquilla. Dovevano fare nascere delle domande nell’ascoltatore».

C’è una traccia alla quale sei particolarmente legato?

«Probabilmente “Majorana”, perché è quella che è nata così come è stata registrata. È una traccia che parla di nostre esperienze personali che si sono mescolate. È come se avessimo messo in una canzone dei ricordi dell’adolescenza che avevamo entrambi. Probabilmente quegli stessi ricordi appartengono – o sono appartenuti – a tanti adolescenti. L’idea di questo paese, che noi abbiamo immaginato nella provincia di Agrigento, che si va a poco a poco svuotando, è più o meno l’idea che è appartenuta alla mia adolescenza: vivere un luogo da cui continuamente se ne vanno persone.

Come siete arrivati alla collaborazione con Carmen Consoli, per il brano “Luna Araba”?

«Avevamo scritto questa canzone e provato a immaginare il preritornello, cioè “È un istinto primordiale riuscire a non farsi male”, cantato da lei. Abbiamo deciso di coinvolgerla, ma non per fare un featuring classico, perché nella canzone lei non canta mai una strofa soltanto. Lei fa più o meno la parte dei cori – a parte quel ritornello – un po’ come se fosse elemento di una band, perché è questo il senso del disco. Forse è il disco più di una band, che di due cantautori. Abbiamo chiamato Carmen perché c’è molta stima nei suoi confronti e di quello che ha fatto. È sempre stata un’artista coerente con le sue scelte, quindi era proprio la persona giusta».

Si sente, nel disco, la presenza della Sicilia. Qual è il tuo rapporto con questa terra?

«Credo che il mio rapporto con la Sicilia sia quel normale rapporto che si ha con il luogo da cui si proviene. C’è un infinito amore, ma anche molta rabbia quando vedi quel luogo maltrattato, ti rendi conto che non c’è cura. Adesso che sono un po’ più grande, è come se ci fosse, oltre a questa rabbia, anche un istinto di conservazione. Sento nei confronti della Sicilia una voglia di proteggerla, come se fosse una bambina, voglio prendermene cura per il futuro. Credo che ne valga sempre la pena, non mi fido di quelli che abbandonano le lotte perché pensano non ne valga la pena. Penso si possa continuare a costruire e cambiare. Se prima c’era solo quella sorta di rabbia, adesso c’è una presa di posizione».

Cosa c’è nella tua playlist dell’estate 2020?

Sembra banale ma, in realtà, ascolto sempre gli stessi dischi. Ultimamente mi sono piaciuti molto il disco di Rosemary Standley, l’ultimo di Kate Tempest, l’ultimo di Fiona Apple. Poi ho i miei classici, sono un superfan dei Radiohead e dei lavori di Thom Yorke, quelle cose non le mollo mai.

Come affronterete il tour tu e Colapesce?

«Quando ci hanno proposto di fare il tour (qui le date, ndr) ne abbiamo parlato molto, abbiamo cercato di capire quale fosse la soluzione ideale per andare a suonare dal vivo “I Mortali”. Con un album uscito a giugno, era difficile non suonare, avevamo voglia di portare in giro le canzoni, per evitare che rimanessero solo qualcosa legata al disco. I dischi che facciamo vivono quando li portiamo sul palco, è quella la loro vera natura. Per il tour abbiamo immaginato un’altra visione di quelle canzoni, con altri arrangiamenti, non posso dire che sono acustici, ma sul palco saremo meno di quanti avevamo immaginato: saranno diversi da quelli del disco, ma le canzoni saranno quelle. In più faremo canzoni del nostro repertorio. Oltre alle canzoni de “I Mortali” ci saranno anche canzoni mie e canzoni di Lorenzo».

Il settore musicale vive un periodo molto difficile. Cosa non si sta facendo, in Italia, per aiutare il settore della musica?

«La situazione si sta gestendo come si è sempre gestito il mondo della cultura in Italia, cioè non conoscendolo. È come se ci fosse sempre stato uno scollamento totale tra le istituzioni e i luoghi in cui si fa cultura. Le istituzioni non li conoscono, non ne conoscono i professionisti. Si interpellano gli interlocutori sbagliati, quindi fino a quando non si recupera questo scollamento tra il mondo della cultura che nasce dal basso (piccole associazioni, spazi privati), o non si instaura un dialogo reale tra le istituzioni e questi interlocutori, il problema non si supererà mai. Oggi, se esco la sera e vedo i locali pieni, con la gente tutta accanto, o salgo in aereo con tutti i posti occupati, mi chiedo perché, allora, in teatro bisogna distanziare, mettendo in crisi il settore. È come se lo Stato avesse fatto, negli anni, di tutto per rendere impossibile, in Italia, vivere di arte. E adesso, con la pandemia, sta continuando a mettere il dito nella piaga, nei confronti degli organizzatori e di tutti quelli che in qualche modo fanno sì che si possa andare a suonare».

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