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Nightclubbing #5 – Roma: D_Hanger, Un Cocktail d’Amore

By maggio 9, 2020 No Comments

Nota On

Il mestiere del padre è uno dei mestieri più difficili che esistono al mondo: assoggettato a/generatore di norme patriarcali; costretto in un afflato post-moderno, al di là del bene e del male; rivisitato nella/compromesso dalla narrazione di un soggetto amico e autoritario, che rappresenta simbolicamente lo stigma della violenza e della sopraffazione nella società occidentale – il maschio – dal padre si esige molto, mentre al padre, alla sua casa, spesso non si fa ritorno.

Eppure siamo tutti figli di qualcosa, di qualcuno, generati e non creati, e questo è un fatto che va ben oltre la mera constatazione. Il clubbing ha alcuni padri, padri creatori, mai padri padroni. Scrive Grazia Deledda in Canne al Vento che “Il rimedio è in noi… Cuore, bisogna avere, null’altro”. Alla legge del padre, tra amore ed altri rimedi, possiamo contrapporre pochi luoghi liberi, tra questi, sicuramente la discoteca, il club, la notte, possono essere eletti a castello transilvano di fasti e di consumate liturgie di corpi e di passioni.

L’Italia delle discoteche, poi, si può raccontare come un simpatico mezzanino di Bristol: a metà tra il fastoso sporco franco-tedesco e la dimensione da teenage wasteland anglo-spagnola. Il nostro modo di fare clubbing è figlio di situazioni anni ’70, un po’ post-balera, da Jackie-O, Piper, Bussoladomani, che evolvono nell’epopea più massiva e modaiola della riviera romagnola, penso ai culti misterici di luoghi come il Cocoricò, per arrivare, ad oggi, a tutti i prodotti derivati da quella rielaborazione degli anni ’80 e ’90.

Prodotti buoni e meno buoni, ma pur sempre, a loro modo, portatori di significati da comprendere. Quei posti hanno anime musicali che sono segni che possono essere rintracciati nelle tendenze invernali dei piccoli spot delle grandi città italiane: i bar di Milano, i circoli ARCI di Roma, le musiche dal lungomare di Napoli e le piazzette di Palermo.

Palermo, data la sua posizione assolutamente indifferente rispetto al mercato nazionale, è spesso stata laboratorio di libera espressione artistica. La periferia ha questa caratteristica: contando poco o niente, permette di sperimentare tutto. Gli imperi, d’altronde, saltano ai confini.

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Federico Diliberto Paulsen è un palermitano atipico. Una figura elegante, dal gusto berlinese. Se fosse la copertina di un disco sarebbe The Idiot di Iggy Pop: jeans stretti, doppiopetto elegante ed una t-shirt basic, in un contesto lunare, avanguardistico, il tutto posto a sorreggere un viso riflessivo, scavato da due occhi da pizia delfica, che scrutano musica nel tempo.

Vengo da una famiglia normale – esordisce Federico -. Papà antiquario e mamma docente universitaria. Sin da piccolo ricordo che la musica era presente pressoché sempre nel mio tempo, nel mio immaginario. Per dire, mio fratello Massimiliano ora fa il DJ come me ed è un musicofilo incallito. A casa mia giravano i soliti dischi che c’erano in tutte le case italiane degli anni ’80: Mina, Battisti, Tenco, i grandi cantautori italiani. Superati quegli ascolti, pur importanti, mi misi a fare le mie personali ricerche e coinvolsi in questo mio fratello.

Ricordo chiaramente che il colpo di fulmine per la musica, e fa un po’ ridere parlarne oggi, avvenne col 45 giri di Dolce Remì, quando avevo solo due anni, un brano scritto da Vince Tempera, del celebre trio di compositori Bixio – Frizzi – Tempera. Incontrai il maestro Tempera qualche anno fa, lavorando per Cinevox Records, avendo così modo di confessargli ‘Maestro, lei è la colpa del mio male!’. (Federico lavora per la casa discografica del Gruppo Editoriale Bixio, che gestisce un ampissimo catalogo di pubblicazioni che, tra le altre cose, comprende tante delle più famose colonne sonore del miglior cinema italiano, ndr). Avevamo un mangiadischi in casa che ricordo distintamente, quello dove si mettevano i 45 giri appunto, ho consumato quel disco e tanti altri poi.

Così, andando avanti nel mio percorso, studiando, lavorando, oggi come allora resto affascinato, rapito dalle melodie, penso sia un po’ anche il marchio distintivo dei miei set. Un’esecuzione eclettica, che spazia dalla ricerca del pezzo pop italiano anni ’70-’80, borderline o divenuto tale, quasi da cabaret televisivo, alla electro francese, a Miss Kittin & The Hacker e poi tanto altro, tutto quello che mi viene in mente e che penso possa funzionare bene in una festa.”.

Una discoteca sul mare di Milazzo

Federico cresce negli anni ’90 a Palermo, frequenta il liceo classico, passa tutte le estati a Milazzo al mare, sapore di sale: “Ci sono dei momenti che sono rimasti impressi nella mia memoria come punti cardine di quelle che poi sono state le mie scelte di vita. Facendo un primo salto indietro, ricordo il momento in cui nel 1997 Ultra dei Depeche Mode era primo in classifica, era un periodo di grande fermento musicale, assorbivo tutti i miei ascolti ed ogni nuovo disco era una scoperta. Guardando ancora più indietro, una cosa che mi ha sicuramente molto segnato, è stato frequentare una discoteca d’estate a Milazzo.

La prima volta che ci entrai avevo tredici anni, ed era proibito a quell’età, ma la feci comunque franca! Fui colpito dalle luci, dalla gente, dai DJ. Fu come un fulmine che schiarì la notte. Non era niente di speciale quella discoteca sul mare di Milazzo, si chiamava Le Cupole, ed io avevo il coprifuoco all’una, proprio quando la serata decollava! Ci andai durante tutte le mie estati di villeggiatura, sempre, giovedì, venerdì e sabato. Mi fece passare anni e anni a fantasticare su cosa avrei fatto io, se fosse toccato a me mettere musica. All’epoca si alternavano dei DJ che passavano un po’ di tutto: dalla classica dance anni ’90, alla house, fino alla commerciale. Quelle esperienze mi fecero maturare il desiderio, che restò per molto tempo represso, di fare il DJ. Per me era difficile, dovevo, e devo ancora oggi spesso, combattere col mio carattere timido e diffidente”.

Le prime esperienze di Federico sono quelle di tanti DJ, esperienze di feste in casa e di borse cariche di dischi: “Nel mio gruppo di amici io ero sempre quello che portava la musica. Poi, per caso, una mia amica mi disse che un suo cugino gestiva un locale e aveva bisogno di un DJ e mi chiese se mi andava di provare. (A Palermo, forse si può dire in Italia, c’è sempre un’amico che ha un cugino che è il deus ex machina che dà inizio alle storie, ndr). In prima battuta ero titubante, poi mi dissi ‘Proviamo, che ho da perdere!’. Così andai a piazzetta della Canna, al Malox, che allora era gestito da Davide Ficarra, cui devo molto”.

Il Malox è tuttora un localino in una piazzetta arroccata tra il Cassaro e via Maqueda, tra la Guilla ed una delle più grandi moschee della città, dietro via dei Candelai. Il locale è adagiato ai bordi di una piazzetta coperta da palme che sanno di papiri, un luogo cui si accede da un intricato vortice di stradine, che si apre su uno spazio inaspettatamente fresco, accogliente, sembra quasi l’anello al mignolo della mano sinistra di un venditore berbero di datteri.

La serata zero

“Il locale sembrava un centro sociale, era fantastico: libero. Io venivo da un’esperienza romana del 1 maggio 1998, ero andato a Roma per il concertone, mentre mi sono ritrovato ad una specie di contro-concertone al Forte Prenestino (storico centro sociale romano, ndr), dove si svolgeva il Toretta Stile, una grande festa per un primo maggio alternativo. C’erano questi due DJ Corry X e Luzy L, che mixavano di tutto, in vinile, cd, cassetta: musica anni ’60 italiana, funky, synth-pop, new wave, post-punk. Una festa bellissima. Mi dissi, se farò un dj set io, sarà così. Nel giugno immediatamente successivo faceva il solito caldo feroce palermitano e, rientrato in città, ebbi l’opportunità di fare questa che definirei la mia serata zero al Malox. Andai e misi per la prima volta le mani su un mixer.

Non venne nessuno, ma piacqui molto ai ragazzi del Malox, così decisero di affidarmi i venerdì della stagione successiva. In quel momento studiavo giurisprudenza, e, tra alti e bassi, portai avanti quegli studi, che a tratti mi frustravano. Il dj set del venerdì mi consentiva di dare sfogo alla mia passione per la musica e di scoprire sempre di più la mia inclinazione al lavoro del DJ. Grazie alla musica ho superato più di una crisi. La musica rappresenta un’esigenza espressiva che non solo è necessaria, ma mi fornisce l’adrenalina necessaria a processare tante ansie, tante situazioni difficili da digerire. In quei venerdì al Malox si creò una scena alternativa, d’un tratto esplosi come DJ. Suonavo in una piccola stanzetta dietro il bancone del bar, cui si accedeva tramite uno stretto corridoio. La stanza era sempre stracolma, piazzetta della Canna era pienissima. Lavoravo con un giradischi e due lettori cd, tutti collegati ad un mixer, senza il pitch (la levetta che permette di modulare il tempo di riproduzione della musica). Era un lavoro artigianale, di testa e di cuore, che mi aiutò molto a conoscere me stesso e sopratutto a capire come empatizzare col pubblico. Portavo con me borse su borse con valanghe di dischi e vinili. Avevo l’esigenza di testare l’impatto di quei suoni e quelle melodie fuori dalla mia stanzetta. Si creò un centro attrattivo importante, differente, che portava avanti un concetto di festa altro dai grandi party house che dominavano gli inizi degli anni ’00. Puntavo su un groove più pop, personale, fuori dagli schemi. Mi piaceva far cantare, ballare spensieratamente, la linea guida era il mio gusto personale, era una selezione del tutto arbitraria e per questo unica”.

Quegli anni a cavallo tra la fine del secolo e i primi 2000 furono anni di esplosione della vita notturna in Italia, anni di feste faraoniche, di possibilità espressive, di anfratti scavati nella roccia alla ricerca di sorgenti pure di divertimento, di bellezza, anni da cui scaturirono interessi, amori, che oggi sono relazioni, lavori, affetti stabili e instabili. “Nel 2001 incontrai Marco Agnello che gestiva un locale su via dei Chiavettieri, il Nero”.

Il Nero è una di quelle esperienze ricorrenti nella narrazione di chi ha vissuto la notte di Palermo, sembra l’epopea di Durruti e della breve estate dell’anarchia, il Nero è un luogo che torna per la particolarità della memoria che ha lasciato di se stesso e per le basi che ha gettato “Al Nero con Marco e, poi, grazie anche a Simone Vesco, capii che potevo fare sul serio, devo loro moltissimo. Marco e Simone hanno una visione sulla lunga distanza ed un desiderio di fare, una spontaneità genuina, una capacità di muoversi, che diventa una positiva ansia creativa, che ha posto le basi di spettacoli magnifici, di notti folli e libere”.

La breve estate dell’anarchia catalana del Nero si chiuse, ma come ci suggerisce l’incipit di Velvet Goldmine “Le storie sono quel che resta degli imperi, come le antiche rovine. Tutto ciò che si è dimenticato rimane, negli oscuri sogni del passato, e minaccia costantemente di riemergere” e così “Ci spostammo in un locale che era stato un posto storico del clubbing palermitano, il Noctis, che venne ripreso, ristrutturato e ribattezzato col nome che l’ha consegnato alla memoria della città: Zsa Zsa, una delle più belle discoteche della città” racconta Federico.

Ogni città ha dei luoghi mistici del culto della notte, templi moderni. Lo Zsa Zsa di Piazza Campolo, primissima periferia post-centro, a metà tra il popolare Zisa/Serradifalco, quartieri di palazzine e palazzi popolari, popolati di Comizi d’Amore in festa e la grande borghesia cittadina di Via Notarbartolo e dintorni, i nuovi ricchi insomma, quelli figli del Tempo del Mele. Lo Zsa Zsa dal 2000 al 2015 circa per tutti quelli che ascoltavano musica, è stato uno dei punti di arrivo: suonare allo Zsa Zsa, frequentarlo, conoscerne i camerini, il palco, era qualcosa di rilevante, qualcosa su cui si programmavano le settimane dal lunedì al sabato.

“Cominciai a fare i sabati e funzionava così: prima c’era sempre un concerto e poi il mio dj set. Ospitammo i primi Verdena, i Baustelle. Finalmente avevo una vera consolle, due CDJ100. Era un momento in cui ero molto centrato sul revival anni ’80, erano gli anni dell’electroclash, dell’indiepop, dell’electropop. Dividevo la consolle con una delle persone più importanti della mia vita, Flora ovvero Anita Mask. Una ragazza metà italiana, metà inglese, che conobbi una sera al Fiutastreghe (il locale gestito dalla bella Fleur Bonanno).

Flora era dark, gotica, andava in giro ricoperta di calze a rete su tutto il corpo, aveva i capelli cotonatissimi. Era nel set colei che teneva in mano il microfono e con esso il pubblico, una sorta di showgirl che mi supportava e che animava il tutto. Passammo stagioni difficili da raccontare per la loro frenesia, per la loro rabbiosa e meravigliosa vitalità. C’era questa fila interminabile che girava attorno a tutto il caseggiato dove stava lo Zsa Zsa, un ambiente alternativo che cominciò ad avere numerosi emulatori. All’epoca il mio nome d’arte era Mr. Sinclair, un nome che trassi da un romanzo di Herman Hesse che stavo leggendo, Demian – Storia della giovinezza di Emil Sinclair, era un personaggio cupo e dolcissimo, inquieto, che mi rappresentava. Quell’inquietudine mi ha sempre accompagnato”.

Quei sabati con la musica di Mr. Sinclair, targati Vesco&Agnello generarono un Supermassive Black Hole che scavò un solco tra loro e tutti gli altri in città. Un solco che fu colmato dall’imitazione del mood di quei party e che finì per avvilirne la matrice. “Capii che non potevo continuare con i miei set di sempre. Stavo suonando col pilota automatico, dovevo invece seguire il mio istinto e i miei nuovi ascolti. Così passai ad un set più marcatamente electro. Un po’ di pubblico chiaramente lo perdemmo, un altro po’ lo acquistammo. Lasciammo lo Zsa Zsa e continuammo in giro per un po’. Nel frattempo, avevo finito a giurisprudenza, decisi che era il momento di fare altro, di approfondire i miei studi nel campo della musica altrove, così mi iscrissi ad un master in Management e Marketing della Musica, organizzato da La Sapienza, feci i bagagli, salutai tutti e me ne andai a Roma. Fu tosta. Volevo lavorare nell’industria discografica e mi ritrovai nella capitale, nel 2006, lontano da Palermo e dalla mia posizione di DJ, dagli amici di una vita, dalla famiglia, dagli affetti. Cominciai a frequentare un po’ di feste, di spazi queer.

Una sera ero alla Locanda Atlantide a San Lorenzo, c’era questa festa: Amigdala. Era incredibile, non avevo mai visto nulla del genere. Succedeva di tutto, suonavano una electro meravigliosa. Cominciai a frequentare il party fino a quando una sera mi feci coraggio, buttai giù quattro vodka-lemon, andai da Paco (Francesco Mirabelli, che insieme a Mauro Orrico organizzava Amigdala) e mi proposi come DJ, raccontandogli in breve la mia storia. Paco mi disse ‘Ok. Prossimo party hai quindici minuti di set’. Ero incredulo e felice. Mi preparai, feci i miei quindici minuti e mentre suonavo mi dissero di continuare. Suonai più di un’ora. In breve, divenni resident di Amigdala con Phonola (altro DJ resident del party).

La festa crebbe e crebbero le situazioni di struscio importante, era una matana, una bolgia. Fu l’opportunità che mi serviva per ripensarmi, evolvere. Volevo un cambiamento, a partire dal nome, mi lasciai alle spalle, con affetto, Mr. Sinclair e divenni D_Hanger. Avevo fatto una festa a Palermo che aveva come simbolo un appendiabiti con la scritta This is not a Dress Hanger – This is D_Hanger, era una festa puramente electro, volevo ripartire da lì. Approfondii questa nuova linea musicale ad Amigdala, senza rinunciare alla melodia, ma concentrandomi su una linea prettamente elettronica. Con Amigdala suonai in tanti posti storici di Roma: il Goa, il Lanificio, il Rising Love, diventammo un punto di riferimento per la scena clubbing gay alternativa a livello nazionale. Negli anni ho lavorato con gente come Ellen Allien, Miss Kittin, Peaches, Arnaud Rebotini, Alex Gopher, Rex The Dog, Etienne de Crecy, Wolfgang Flur dei Kraftwerk, i Kap Bambino, Kobosil, ecc. Nacque pure un progetto parallelo, Glamda. Suonavo tantissimo”.

Federico, finito il suo master, comincia a lavorare nell’industria discografica, approdando nel 2011 alla Cinevox Record. “Sono molto fortunato, ho modo di lavorare per un’azienda che ha prodotto grandi Maestri come Morricone, Piovani, i Goblin, Umiliani. Ho iniziato sistemando l’archivio storico dell’etichetta, prima quello fisico poi quello digitale, ho seguito dei progetti discografici e oggi collaboro pure con l’ufficio edizioni anche come music supervisor. Recentemente, insieme a Paola Sangiorgio e Silvia Siano, ho fornito la consulenza musicale e seguito il licensing per SKAM Italia, un’esperienza bellissima”.

La colonna sonora di SKAM Italia è davvero notevole e dimostra ancora la capacità di Federico di lavorare con la musica, il suo gusto è capace di declinarsi in tanti registri, dalla consulenza filmica alla festa. Federico è uno di quei DJ da cui si può imparare tanto, per le scelte, per i tempi, per i discorsi musicali. “Nel 2017 mi misi a sedere con due amici, Gianluca e Manuel, ci trovammo uniti dall’esigenza di proporre un prodotto nuovo, che rispecchiasse la nostra volontà di dare alla scena queer romana qualcosa di fresco e leggero. Ripensai ai tempi del Malox. Ne venne fuori CretinaH. Il motto che spiega CretinaH è Be Free – Be Yourself – Be CretinaH.

CretinaH è un party figlio di Roma Est, del Pigneto, di San Lorenzo. È un party con un’atmosfera leggera, che si basa su un ventaglio ampio di sonorità, che spaziano dal pop all’electro. Cominciammo a farlo in un locale che amo molto, lo Sparwasser, nel novembre 2017. Il party intercettò subito un pubblico molto ampio, fin quando fummo chiamati da Largo Venue a diventare resident dei loro venerdì, dentro lo spazio di Latte Fresco, una serie di party LGBTQI che vengono ospitati dal locale. È un impegno essere CretinaH, cerchiamo di utilizzare un linguaggio mainstream per destrutturare le grandi feste gay commerciali. Non abbiamo i gogo boys, non abbiamo le drag, mettiamo davanti a tutto la musica”.

Nota Off:

Ho diviso diverse volte la consolle con Federico. Lui mi ha visto suonare davanti a quattro persone in un piccolo pub di Palermo con un controller midi scassato ed un vecchio portatile, così come recentemente di fronte alla folla festosa di CretinaH, nel loro ultimo party prima del lockdown. Una cosa che tutti dovrebbero sapere di Federico è che è una delle persone più gentili e intelligenti che puoi trovarti di fianco in consolle – l’esatto contrario del sottoscritto – dividere la consolle con Federico è speciale perché ti mette perfettamente a tuo agio, tutte le volte che ci siamo dati il cambio ci siamo raccordati come fossimo una persona sola.

Questa è una dote che richiede una sensibilità che molti DJ non possiedono. Federico è capace di far stare bene le persone ad una festa, di intercettare gli umori della pista, di accompagnare gli amori della notte, di farlo con una leggera ricercatezza. Federico non suona per cercare di imporsi, ma cerca di sedersi in mezzo alle persone, apparecchiando per loro una tavola ricca di suoni, sfarzosa e scanzonata, Federico è capace di stare al comando di un battello ebbro e CretinaH rappresenta questo suo fare. Ci sono poche persone cui sento di essere legato nel mondo del djing e del clubbing e Federico è una di quelle persone di cui mi sento figlio.

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