Dopo trentacinque anni di carriera con i Radiohead, Ed O’Brien ha finalmente compiuto il grande passo.
Il 17 aprile è infatti uscito l’album di debutto da solista del chitarrista della band di Oxford, “Earth“. È un disco che mette in risalto non soltanto la sua bravura con la sei corde, quella la conosciamo già tutti, ma evidenzia anche le sue buone qualità canore e come autore di testi.
Se i suoi colleghi Thom Yorke e Jonny Greenwood nei rispettivi progetti solisti si sono letteralmente distaccati dalla musica della band principale, chi imboccando il sentiero dell’elettronica sperimentale e chi dedicandosi anima e corpo nella musica classica e alla realizzazione di colonne sonore, il buon Ed decide di rimanere fedele a se stesso e sforna un disco di pop-rock moderno ed elegante, in cui convivono armoniosamente un’anima più acustica e morbida ed una più elettrica e muscolare.
Le sue armi sono sempre le stesse, comunque efficaci: chitarre e una vagonata di pedali ed effetti, soprattutto ambientali, capaci di creare paesaggi sonori ampissimi privi di orizzonte.
O’Brien ha raccontato di avere composto musica già dai tempi di Ok Computer dei Radiohead, e parliamo del 1997, ma di essersi sempre sentito insicuro sulla sua capacità di scrivere dei testi all’altezza e di avere come una costante sensazione di blocco.
Tutto questo fino al 2012, quando il nostro si trasferisce con la famiglia in Brasile per circa un anno e va a vivere in una fattoria nella cittadina di Ubatuba. Qui Ed ha come un’illuminazione derivante dall’ascolto dopo molti anni di un disco seminale che ha ispirato una intera generazione: Screamadelica dei Primal Scream.
Quello che in principio avrebbe dovuto essere un album di musica elettronica à la Burial diventa a questo punto tutt’altra cosa e l’influenza del Carnevale brasiliano, dei suoi colori, dei suoi aspetti più estremi di aggregazione e celebrazione infondono in Ed una nuova e rinnovata consapevolezza.
In cabina di regia viene arruolato Mark Ellis, in arte Flood, uno che ha collaborato con chiunque da Lucio Battisti agli U2 passando per Depeche Mode, Nick Cave and the Bad Seeds, The Jesus and Mary Chain, Nine Inch Nails, The Smashing Pumpkins e molti altri.
O’Brien ha inoltre deciso di circondarsi di musicisti di prim’ordine: Adrian Utley dei Portishead alla chitarra, Glenn Kotche dei Wilco alla batteria e il fido bandmate Colin Greenwood al basso.
L’album viene anticipato da una traccia ambient rilasciata ad ottobre 2019 intitolata “Santa Teresa”.
Il disco che esce sei mesi dopo si apre con “Shangri-La” e mette subito sul tavolo alcune della carte migliori del suo autore: ottimi riff, armonie vocali, intrecci di chitarre, batteria sostenuta.
“Brasil” parte morbida e bucolica con un arpeggio di chitarra acustica e la voce di Ed molto delicata, ma dopo tre minuti il pezzo si trasforma completamente in un inaspettato e bellissimo ibrido tra Madchester e folktronica. Con i suoi otto minuti si candida tranquillamente ad essere uno dei migliori momenti del disco, ed è accompagnato da un video diretto da Andrew Donoho.
Where you go, I will go
La classe compositiva di O’Brien viene fuori in “Deep Days“, una canzone sull’amore indivisibile:
“Where you go, I will go
Where you stay, I will stay
Where you sleep, I will sleep
And when you rise, I will rise
Where you go, I will go
And if you fall, you can fall on me”.
“Long Time Coming” e “Mass” sono altri due episodi molto morbidi e armoniosi, tenuti in piedi da chitarre acustiche riverberate che danno questa sensazione di essere come sospesi in aria.
Con “Banksters” ritorna in auge il lato più elettrico e diretto del chitarrista di Oxford; scritta dopo il crollo finanziario del 2008 il nostro continua a chiedersi legittimamente “Where did all the money go?”
In “Sail On” emerge il lato tipico di O’Brien, quello che tutti conosciamo, grazie ad uno splendido lavoro di soundscaping su cui poggia un arpeggio acustico super atmosferico, quasi meditativo.
“Sail on like a summer breeze” ripete Ed, un po’ come le onde del mare che piano piano arrivano fino alla spiaggia.
“Olympik” è l’altro pezzo del disco che supera gli otto minuti. Al primo ascolto non possono che venire subito in mente gli U2 degli anni ’90, probabilmente grazie al contributo di Flood che ha lavorato in prima persona con la band irlandese proprio in quel periodo. Caratterizzato da una ritmica muscolosa in cui si intrecciano chitarre in delay, synth e la voce di Ed che sul finale ripete ossessivamente “I have to dream”.
Inoltre il testo contiene la frase “On this pale blue dot” che doveva inizialmente essere il titolo dell’album, ispirandosi alla foto del pianeta Terra scattata nel 1990 dalla sonda Voyager 1, quando questa si trovava a circa sei miliardi di chilometri di distanza. Per motivi di copyright non è stato possibile utilizzarlo, ecco perché Ed ha optato per un comunque suggestivo “Earth”.
La chiusura dell’album viene affidata a “Cloak Of The Night“, in cui l’aria si fa meno carica e si ritorna ad un’atmosfera decisamente più rilassata grazie alla voce di Laura Marling che duetta con quella di O’Brien su una dolce chitarra acustica.
Anche lontano dalla band principale il chitarrista porta avanti la sua opera di evoluzione e maturazione, nella speranza che sia l’inizio di un percorso in grado di sorprenderci ulteriormente.