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Paolo Benvegnù, un’intervista sull’impossibilità

By aprile 15, 2020 No Comments

Ho raggiunto Paolo Benvegnù per telefono in uno di questi pomeriggi, spesso tutti uguali, intervallati da una diretta di Giuseppe Conte e un concerto live sui social. Gli ho fatto un po’ di domande sul nuovo album, sulla crisi che stiamo vivendo e sulla sua carriera. Ne è venuta fuori una chiacchierata profonda e ironica.

Prima che iniziassi la diretta streaming per #StayOn ti si vede leggere un bel librone, di che si tratta?

«Penso fosse Elio Petri, “Scritti di cinema e di vita”. Elio Petri era qualcosa di inusuale all’epoca come cineasta così come, per certi versi, Pasolini. La vita e l’opera si danno sempre la mano. Oggi siamo in un periodo storico in cui uno ha una vita e poi fa il cantante o il poeta, non sono d’accordo su questo».

Sì, dobbiamo spesso improvvisare tanti “io” nella società.

«Basterebbe alla fine trovarne uno, il tuo, il nostro, ognuno ha il suo, per questo ci vuole tanta fatica, lo capisco».

La data di Catania è stata l’ultima prima del lockdown.

«La prima e l’ultima! Abbiamo fatto un disco sull’impossibilità, “Dell’Odio Dell’Innocenza”, meglio di così non poteva andare».

Come si uscirà da questo periodo?

«Non ne ho idea. Innanzitutto bisogna cercare di sopravvivere ed è importante che le persone non siano a rischio. Non sono disperato, sono più tragiche le esperienze che hanno vissuto quelle persone che perdono i familiari. I nostri bisnonni hanno fatto la guerra, noi abbiamo questo…».

A proposito, in molti definiscono questo periodo “una guerra”, tu che ne pensi?

«Non è la stessa cosa. Per certi versi è il segno dei tempi. Le sofferenze le vedi di meno, ne senti il racconto, sembra che non ci siano, in realtà possono succedere a chiunque. Io la sento tanto qui. Come tutti i settori di questo Paese, anche nella musica, se si vorrà seguire i custodi andrà tutto bene, come nel dopoguerra. Se invece continueremo a seguire gli aguzzini come negli ultimi venticinque anni, allora sarà una merda. Non è tanto essere brillanti o avere intuizioni nei momenti brillanti dell’umanità, ma esserlo nei momenti d’opacità, in cui l’ombra regna».

Siamo sicuramente in un periodo di transizione in cui verranno piantati i semi per il futuro prossimo.

«Questo è il momento in cui il poeta, il bardo, ha una sua funzione. Bisognerà vedere se verrà accettata oppure si tornerà a fare le cose da idioti come si son fatti negli ultimi vent’anni. Mi auguro di no, ma la mia esperienza è talmente lunga da farmi dire che andrà così, perché gli uomini sono stupidi da sempre, io compreso…».

“Dell’Odio Dell’innocenza” sembra essere uscito nel momento giusto.

«…come una Cassandra».

Riascoltandolo ad un mese di distanza sembra proprio parlarci di un mondo finito, dal quale si spera di scappare.

«In realtà è da dieci anni che parlo dell’impossibilità a viverci, di fuga dall’essenziale, di ricerca del superfluo…».

Diciamo che l’uomo non si salva mai nelle tue canzoni.

«Invece potrebbe salvarsi. Non è guardando al futuro, ma è guardando al presente, al miracolo. Noi ci parliamo, respiriamo, questa malattia che va a spezzare il respiro, per esempio, è la negazione del miracolo. Queste cose dovremmo riuscire a leggerle. È molto semplice vivere bene, basta vedere gli alberi, vedere come vivono loro».

Come dici in “Pietre”, il silenzio è la verità. Dovremmo stare più zitti e contemplare di più?

«Non c’è nemmeno il bisogno di essere concentrati, son proprio le cose che ti parlano, c’è un silenzio diverso oggi, più vicino ai silenzi che ognuno ha nelle proprie stanze. Secondo me bisogna riuscire a sfruttare questa cosa per avere delle intuizioni più vicine a noi, che ci siamo persi e speriamo di ritrovarci».

Come sono nate queste nuove canzoni?

«L’album l’ho scritto in un momento di calma, con l’aiuto dei miei compagni. Mi sentivo permeato da questi due sentimenti, l’odio e l’innocenza. Questa è una verità. L’altra realtà è che mi è arrivato un disco anonimo e c’ho lavorato su… sono vecchio, non riesco a scindere una realtà da un’altra. Certo è che senza l’aiuto dei miei compagni non ci sarebbe stato nulla, perché io purtroppo non sono autofunzionante».

I tuoi compagni sono quelli che sul palco chiami “I Paolo Benvegnù”, la tua band?

«Esatto (ride, ndr), i miei compagni a loro malgrado, povere anime…».

Nel ‘97 gli Scisma vengono premiati come miglior esordio al Ciampi, per “Rosemary Plexiglas”.

«Vergognosamente, perché non era il primo disco e io sono stato zitto come un topo, tanto per far capire come gli uomini a volte possono essere infingardi».

Credo che ancora oggi “Bombardano Cortina” – il primo album degli Scisma, autoprodotto – non sia stato ancora ristampato: mi sbaglio?

«È stato stampato in 500 copie per la prima tiratura e mi auguro che non venga ristampato, è un disco orrendo, nonostante gli Scisma fossero bravissimi, io scrivevo pezzi orrendi, loro più di tanto non potevano fare…».

Al Premio Ciampi quell’anno venne premiato pure Fabrizio De André, gli diedero il premio alla carriera. Quand’è che hai deciso di vestire i panni del cantautore, iniziando un percorso più intimo?

«Per me non è cambiato nulla, scrivo da solo le canzoni ma da solo non sono in grado di definirle… ricordo che ad un certo punto sono andato al lago di Garda perché volevo vedere più mondo rispetto a quello che avevo già visto e quello mi è servito. Forse è più un discorso di percorso umano che un discorso di professione. È monachesimo più che altro».

Si sente molto che le tue canzoni nascono da un bisogno, da una necessità di guardare dentro, sento in genere un’intensità alla Fossati. Se da un lato, poi, ho la percezione che “Dell’Odio Dell’Innocenza” sia un sunto della tua carriera, dall’altro lato, invece, sembra voler continuare un discorso già aperto in “H3+”.

«Senza volerlo commetto sempre lo stesso omicidio, però è vero che “Dell’Odio Dell’Innocenza” è strettamente legato ad “H3+”, tutto il percorso dell’uomo che si chiude in una stanza in un futuro distopico, poi parte, questa stanza diventa un’astronave, ritorna sulla terra sotto forma di pioggia e poi ricomincia ad essere uomo e riguarda gli esseri umani e sé stesso con odio e con innocenza. Non era calcolato. Come diceva Fellini, scriviamo tutti lo stesso film, siamo innamorati di cento donne diverse che hanno lo stesso nome».

La trilogia iniziata con “Hermann” avrebbe così un nuovo episodio, un nuovo capitolo.

«Una postfazione!».

No, quella in genere non si legge mai.

«Mi andrebbe benissimo che non si ascolti, essendo un disco sull’impossibilità, che non ci sia un tour».

Hai incontrato difficoltà nel fare questo disco?

«No, anzi, ci siamo divertiti molto, i pezzi li ho scritti in dieci giorni, non ci sono stati intoppi, è un disco felice, anche se non parla espressamente di cose felici, è nato con la volontà di scrivere canzoni che facessero le canzoni e tutte insieme facessero un libro».

Quando ho letto il comunicato stampa mi aspettavo un disco più grezzo, acustico.

«Lo pensavo anch’io».

C’è quest’elettronica lieve che “sporca” un po’ le canzoni, fino ad arrivare al pezzo finale che stupisce.

«Quella è la prima volta che mi capita: ho scritto un pezzo in mezz’ora, poi l’ho registrato dopo cinque minuti, ho piazzato i microfoni nella stanza prima di scrivere. L’idea era quella di pensarsi nella più totale nudità».

Perché l’hai chiamato “InfinitoAlessandroFiori”?

«Perché Alessandro Fiori è “infinito”, l’idea è proprio questa, rapportare le cose piccole o le cose non tanto belle da confessare come l’odio o l’innocenza con l’infinito. Noi continuiamo a rapportare le cose all’economia, ma che cazzo è l’euro rispetto all’infinito (ride, ndr)? L’essere umano che mi ricorda di più l’infinito è Alessandro Fiori. Me lo ricorda pure Marco Parente, ma Marco è più finito, più geometrico, mentre Alessandro non lo è».

Nel pezzo “Nelle stelle”, che è molto d’atmosfera, collabori con un’artista: me ne parli un po’?

«Bravissima, si chiama Orelle, una contrabbassista pazzesca oltre che una cantante eccezionale e ha reso leggerissima tutta la parte finale, l’ha resa siderale. L’idea è quella di essere sommersi dal viaggio siderale».

Da dove è tratto il dialogo che si sente all’inizio?

«Sono Lauren Bacall e Humphrey Bogart in “Acque del sud” (pellicola del 1944, ndr), parla della cecità. La cosa più interessante del pezzo sta nella linearità del contrabbasso, nell’incedere senza soluzioni del basso, talmente ripetitivo… mentre un essere umano dice “parlami delle cose più assurde che ci possano essere”. Per me come ossimoro è molto interessante, come anche la contrapposizione e la posizione della voce mia e quella di Orelle».

L’album oscilla tra pezzi “terrestri” e quindi arrabbiati e pezzi più “celesti”, dove prevale la contemplazione delle stelle, della luna, del cielo, fino ad arrivare a quel “Non torniamo più” che è una fuga vera e propria.

«Quello è divertente, lì diventa Massimo Ranieri, un momento altissimo, della mia vita intendo dire! Attenzione, per me è stato finalmente tornare a cantare come quando da bambino ascoltavo le canzoni, è la prima volta in un mio pezzo che mi permetto di fare il cantante di musica leggera».

Potresti anche continuare, visto il risultato.

«Sai, lì poi il passaggio al liscio e alle Costa Crociere… sono vicinissimo».

Sei troppo pessimista.

«L’idea, anche qua, era di scrivere un pezzo molto semplice, di cecità, d’ingenuità, non si può pensare di andare lontano dal mondo, almeno che tu non sia un infante o altro che noi non conosciamo. È un disco di negazioni. Ecco perché è un disco di impossibilità. La possibilità c’è ma è impossibile (ride, ndr)».

Come i voli di Chagall nei suoi quadri.

«Magari, quelli erano molto più aerei. Io penso che lui li abbia pensati prima, io invece li ho pensati durante o dopo. In “Hermann” sono riuscito, nel senso della divinazione. Devi essere particolarmente ispirato, in uno stato particolarmente pericoloso e ci riesci».

Se dovesse suonare al campanello il fantomatico autore anonimo che immagini possa aver scritto i pezzi di “Dell’Odio Dell’Innocenza”, come te lo aspetti? Sarebbe, poi, soddisfatto del risultato o ti chiederebbe solo i diritti?

«Se mi chiede i diritti d’autore glieli do tutti, così si rende anche conto di quanto bisogna essere funamboli. Mi aspetto una donna, una signora anziana che ha vissuto, che mi dica “non male come tentativo, meno male che c’erano i tuoi compagni che sono meravigliosi. Tu magari la prossima volta canta un po’ meglio”. Una cosa del genere».

C’è qualche lato di te che stai scoprendo da quando sei diventato padre?

«Una parte di me un po’ sopita che rivive in lei (la figlia, ndr). Questa ira inspiegabile che un adulto non comprende in genere. È una cosa che mi sta rimettendo a posto. Ho capito perché, ad esempio, scrivo sempre di umani. E poi lei è straordinariamente disubbidiente, cosa che mi sarebbe piaciuto essere, non è male. Chi ha i figli ha la possibilità di avere uno sguardo un po’ diverso dall’umanità che non è soltanto quello dell’intenzione e del desiderio, ma anche quello del misterioso inconscio ed è molto bello».

Per finire, un film, un libro, della musica da consigliare per questo periodo?

«L’unica cosa che vedo sono film per bambini, però un libro che mi piacerebbe consigliare è “Vinpeel degli orizzonti” di Peppe Millanta, premio John Fante due anni fa, dai due ai centomila anni».

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