“Fear leads to panic, panic leads to pain
Pain leads to anger, anger leads to hate”.
(“Danny Nedelko”)
Se fossi una persona pigra, basterebbe questa citazione per spiegare la ragione che mi spinge a parlare degli IDLES. Non ricordo né come né quando li ho scoperti, ma posso dire con certezza che, da quel momento, non ne ho più potuto fare a meno. Hanno esattamente tutto ciò che serve per affrontare la bizzarra epoca moderna: sono fortemente arrabbiati, non hanno paura di prendere una posizione e disprezzano la divisione del mondo in categorie. Tutte qualità, queste, estremamente apprezzabili già in tempi normali, figuriamoci durante una pandemia.
Questa band di Bristol si è conquistata il suo posto speciale nel panorama mondiale, facendosi strada con calci di note ben assestati. I dischi scaturiscono da un’incazzosa anima punk, ma non osate dire loro che sono punk: accettano, tutt’al più, di essere chiamati “heavy post-punk”. Le parole sono importanti.
Gli IDLES hanno una grande potenza di suono e parole. La voce di Joe Talbot ti ringhia gradevolmente in faccia, le chitarre sono pesantissime e i testi ti trascinano in strada, ricordandoti tutto quello che non va bene in questo mondo.
Le contraddizioni – intese come pluralità di prospettive e non come incoerenza – sono uno dei punti cardine della loro musica. La serietà passa attraverso la più rozza cialtroneria, il dolore si traveste con un sorriso beffardo, le lacrime cadono mentre nessuno le può vedere, la gioia è sopravvivenza. È una baraonda, un’ode al disordine che, per assurdo, ci ricorda quale dovrebbe essere il giusto ordine delle cose.
I testi non le mandano a dire a razzismo, fascismo e sessismo. Parlano di politica, di discriminazione e anche della libertà di non avere paura a essere ciò che si è. Sono un bel promemoria del fatto che la musica sa essere un eccellente veicolo per messaggi con un’anima: un dettaglio spesso dimenticato, finito nel fondo di un cassetto riempito di hit che durano giusto il tempo di una playlist (per carità, servono anche quelle, ma c’è una innegabile differenza in termini di spessore).
Tra tutte le canzoni di “Joy as an Act of Resistance” (che più che un titolo per un album, è un mantra da ripetersi un giorno sì e l’altro pure) ho scelto proprio “Danny Nedelko“, perché quel verso che ho citato all’inizio continua a ronzarmi per la testa. Danny – frontman degli Heavy Lungs – è un caro amico dei membri della band ed è un immigrato di origine ucraina. Nel video del brano se ne va in giro indossando una maglietta con scritto sopra “No One is an Island”, fa il verso al Bob Dylan di “Subterranean Homesick Blues” e sorride a tutti, sfoderando un carisma che ti stende con la sua semplicità.
“My blood brother is an immigrant / A beautiful immigrant
My blood brother’s Freddie Mercury / A Nigerian mother of three
He’s made of bones, he’s made of blood
He’s made of flesh, he’s made of love
He’s made of you, he’s made of me
Unity”
Nel dibattito sull’immigrazione si tende a spostare l’attenzione dalle persone alle razze, intese come incolmabile differenza. La canzone, invece, vuole riportare l’accento sull’aspetto umano. Fun fact: gli Heavy Lungs hanno dedicato a loro volta un pezzo a Joe Talbot, “Blood Brother”.
La verità è che è un po’ un peccato parlare soltanto di una canzone degli IDLES. Sarebbe doveroso parlare di tutto il disco e anche del disco precedente, “Brutalism”, ma verrebbe meno la raison d’être di una rubrica che si chiama “That Song Made my Day“. Quindi mi limito a “Danny Nedelko”, un brano che fa della schiettezza un prezioso punto di forza: non ha bisogno di troppi giri di parole per spiegarti le cose. D’altronde, parla della stessa realtà che incontriamo per strada, quella che vediamo al telegiornale e che viene strumentalizzata a giorni alterni.
I sentimenti degli IDLES sono estremi e fortissimi, esattamente come la loro musica. Autentici e intrisi di una buona dose di dolore, come è giusto che sia. Talmente a portata di mano da diventare un concetto più ampio e ancora più inclusivo, che si può prendere in prestito per parlare di questo presente scandito dai bollettini delle ore diciotto.
“La paura genera panico, il panico genera dolore
Il dolore genera rabbia, la rabbia genera odio”*
Magari, scrivendolo in italiano, il messaggio è più chiaro.
*Mi si conceda una traduzione meno letterale, ma più adatta, del verbo.