Chissà quante persone hanno deciso di imbracciare una chitarra dopo aver ascoltato “Nevermind” dei Nirvana. Chissà quante persone ci si sono rispecchiate, così arrabbiate, inquiete e con la costante sensazione di essere fuori posto.
Nelle intenzioni della band non c’era esattamente quella di sdoganare il grunge e il rock alternativo in radio e sulla televisione commerciale, eppure così è stato, a dimostrazione del fatto che i risultati più geniali, spesso, sono “solo” un bizzarro effetto collaterale. Uscito nel 1991, Nevermind è il secondo album in studio dei Nirvana, dopo il debutto, “Bleach”.
Si può dire che un po’ tutto quello che riguarda questo disco segua le leggi del caso: le aspettative in termini di successo erano basse, avrebbe dovuto avere un titolo differente e ha fatto i conti con una traccia nascosta, “Endless, Nameless”, cancellata per errore dalle prime stampe. L’approccio punk è sempre stato una cifra stilistica dei Nirvana, questo è abbastanza chiaro.
Per dare vita a Nevermind, un album che ha conquistato di diritto un posto nella storia del rock, c’è voluto circa un anno. La band iniziò a lavorare su un disco che sarebbe dovuto uscire per la Sub Pop con il titolo di “Sheep”: il nome faceva riferimento alle masse, intese come gregge che segue i suoi beniamini. Tramite la Sub Pop, i Nirvana erano entrati in contatto con il produttore Butch Vig, con il quale registrarono alcune canzoni, tra le quali “In Bloom”, “Lithium” e “Polly”. Nel frattempo, però, la loro notorietà era cresciuta, soprattutto aver aperto un tour estivo dei Sonic Youth. Il passaggio a una major era nell’aria e così fu, complici proprio i Sonic Youth: Kim Gordon e Thurston Moore, infatti, spinsero affinché i Nirvana firmassero con la DGC.
La formazione era composta da Kurt Cobain (chitarra e voce), Krist Novoselic (basso) e Dave Grohl (batteria), ma bisogna precisare una cosa. Quando i Nirvana iniziarono a registrare con Vig, Chad Channing – il batterista che appare in gran parte di Bleach – faceva ancora parte della band. Il suo contributo a “Polly” è rimasto nel disco, ma il suo nome non apparì nei credits.
Nevermind è un album apparentemente grezzo, ma nasconde molto spessore. Il produttore Butch Vig convinse Kurt Cobain a optare per il doubling, puntando sulla passione di Kurt per i Beatles. Il cantante era riluttante, in un primo momento, a doppiare la parte vocale di “In Bloom”, ma quando Vig gli disse che John Lennon doppiava la propria voce, acconsentì, estendendo l’utilizzo della tecnica anche ad altri brani.
Arrivati alle fasi di missaggio, band e produttore non stavano ottenendo ciò che volevano. Decisero, quindi, di chiamare Andy Wallace, che aveva co-prodotto “Seasons in the Abyss” degli Slayer. In un primo momento tutti si dichiararono soddisfatti del risultato, ma qualcosa cambiò quando l’album ottenne un enorme successo commerciale: Kurt Cobain arrivò anche a dire di essere “imbarazzato” per quanto prodotto. Imbarazzo o meno, i posteri hanno confermato la prima impressione.
Nevermind funzionò – e funzionò molto bene.
Qualsiasi dettaglio del disco ha contribuito a tracciare l’aura iconica che lo ricopre, a cominciare dalla copertina. Dopo aver visto un documentario sul parto in acqua insieme a Dave Grohl, Kurt Cobain rimase talmente affascinato da volere un’immagine a tema. L’etichetta discografica non era dello stesso avviso, quindi alla fine si trovò un compromesso, con il piccolo Spencer Elden che nuota in una piscina, rincorrendo una banconota appesa a un amo (aggiunta – manco a dirlo – in post produzione).
Fun fact: Kurt aveva, in generale, un forte interesse per l’argomento gravidanza, che venne palesato anche nell’ultimo album della band, “In Utero“.
Here we are now, entertain us
Uno dei principali pregi di Nevermind sta nella bellezza di ogni sua traccia. È uno di quei dischi in cui non senti mai l’esigenza di saltare da una canzone all’altra senza farla prima terminare. L’inizio ha un impatto fortissimo, con “Smells Like Teen Spirit“: un inno generazionale, che ha saputo catapultare il rock underground di Seattle nel vorace mondo mainstream. Il titolo gioca su un innocente fraintendimento: un bel giorno, Kathleen Hanna delle Bikini Kill scrisse “Kurt smells like Teen Spirit” su una delle pareti della casa di Cobain, riferendosi a un deodorante dal nome molto divertente.
La cosa piacque molto a Kurt che, in realtà, non aveva idea dell’esistenza di quel deodorante e non la ebbe per molto, molto tempo. L’importante, comunque, è che quel “teen spirit” (inteso nel senso dello spirito e non del profumo) abbia trovato una eccellente rappresentazione in una canzone che urla in faccia alla monetizzazione delle sottoculture giovanili. Il brano è un invito alla consapevolezza nato dall’alienazione e da quella implacabile rabbia che pervade il punk, che è riuscita a ispirare alcune delle canzoni più belle della storia.
Kurt Cobain era vulnerabile e sensibile: caratteristiche, queste, che emergono dai racconti di chi l’ha conosciuto, ma anche dalle immagini sbiadite dei VHS che ci piace vedere ancora oggi. Tutta quella celebrità non gli andava esattamente a genio, era troppo tormentato e inflessibile per poter scendere a patti con un mondo che ti fagocita e poi ti sputa via.
Da un punto di vista musicale, le canzoni di Nevermind riescono a bilanciare molto bene le melodie pop, i ritmi arrabbiati e martellanti e i riff di chitarra dissonanti. Quelle melodie accattivanti vanno a braccetto con sonorità graffianti e linee vocali estremamente aggressive. Si coglie, nelle tracce del disco, il retaggio di generi diversi, in un’alternanza di passaggi quieti e ritornelli urlati.
Non mancano le distorsioni e gli effetti, con il risultato di un suono che sa diluirsi e disperdersi, per tornare compatto e provocante giusto in tempo. Così, sa dilatarsi in “Come as You Are”, ma prende subito la rincorsa in “Breed”. In “Territorial Pissing” si spinge al suo limite, con la voce di Kurt talmente portata all’estremo da non farcela quasi più nei versi finali.
Come as You Are
Probabilmente mai nessuno riuscirà a fare un disco come Nevermind – e meno male: è un prezioso unicum. I Nirvana non avevano alcuna pretesa di diventare superstar, eppure lo sono diventate. Capirono di aver combinato un bel guaio quando, nel 1992, scalzarono dalle classifiche Michael Jackson e il suo “Dangerous”.
Non avevano fatto altro che criticare lo sfavillante circo del pop e si ritrovarono proprio lì, in bella mostra tra tigri, leoni e lustrini.
Il lavoro di missaggio di Andy Wallace ha certamente giocato un grande ruolo, nel viaggio di sola andata dall’underground al mainstream. Bisogna dire, a onor del vero, che anche gli originari mix di Butch Vig sarebbero andati bene nelle classifiche (li si può ascoltare nell’edizione “Super Deluxe” del disco, con il nome di “Devonshire Mixes”): le differenze sono sottili.
A rendere immortale Nevermind è la sua stessa natura. Sì, profuma ancora di Teen Spirit, nonostante abbia quasi trent’anni.