Si sa, spiegare il significato di una canzone è di per sé una operazione priva di senso. Nel caso di Bob Dylan, poi, diventa un’impresa molto difficile. Credo che questo concetto si possa trasporre all’arte in generale. Sono molto d’accordo con l’idea che l’opera d’arte, almeno quella di valore, abbandoni anche il significato spazio-temporale circoscritto che gli conferisce l’autore, oltre che l’autore stesso che, arrivati a un certo punto, diventa soltanto veicolo di un messaggio universale ed impersonale.
Ecco, per A Hard Rain’s A-Gonna Fall credo sia capitato proprio questo. Scritta sulla base della ballata italiana di tradizione orale Testamento dell’avvelenato e diffusasi successivamente nel mondo anglosassone con il titolo Lord Randal, se ne discosta per alzarsi a ballata apocalittica che, nel corso degli anni, ha visto la bellezza di quasi trenta cover ufficiali, escludendo quelle non ufficiali.
Mentre in Italia si ballava su Pregherò, Stai lontana da me e Ogni giorno, una discutibile compilation di brani non proprio di produzione nostrana, il mondo piangeva Marilyn, la Philips di li a breve avrebbe presentato al mondo la musicassetta, ed al cinema usciva L’angelo sterminatore, un ventunenne scanzonato, armato di chitarra e armonica, presentava una delle canzoni che sarebbero rimaste per sempre nell’immaginario collettivo, attraversando almeno tre generazioni (fino ad ora). Non a caso Hard Rain è la canzone che Patti Smith ha cantato in occasione della consegna del Nobel (interrompendosi due volte perché troppo emozionata) che Dylan decise di disertare.
Dylan la scrisse nell’estate del 1962 ispirato anche dal poeta Allen Ginsberg, che nel 1956 pubblicò Urlo e confessò di essersi messo a piangere dopo aver ascoltato quella canzone per la prima volta.
Cambiò varie volte le strofe, ma mantenne intatta la struttura narrativa, creando così una litania musicalmente ipnotica, composta da tre accordi e scritta in forma di dialogo fatto di domande e risposte con un ipotetico figlio. Lenta e costante, ti avvolge fino a farti sentire dentro un vortice di musica e parole che ti spingono a cercare riparo dall’imminente diluvio che sta per scatenarsi.
A tutto ciò fa da sfondo uno scenario apocalittico reso dal testo. Una realtà di immagini evocate, a cavallo tra l’apocalisse e la Divina commedia. Ascoltando la descrizione dei paesaggi e gli scenari, ci si perde attraverso il racconto quasi evocativo dei viaggi di Marco Polo. Insomma, Hard Rain potrebbe essere una delle Città invisibili di Calvino, che però usciranno solo dieci anni dopo. Spariscono il tempo e lo spazio “dove nero è il colore e zero è il numero”, qualcosa sta per succedere ma non sappiamo quando e dove. Un Trionfo della morte musicale che esplode nel monito di un ritornello quasi ululato. Un sentimento di angoscia, non metropolitana, che invece apparirà qualche anno dopo con Mr. Tambourine Man, ma un’angoscia universale.
Si sa, spiegare una canzone è un’impresa molto difficile come avrete letto, soprattutto se si tratta di Hard Rain. Sicuramente c’è riuscito meglio di me Alesandro Portelli, che gli ha dedicato un saggio di 175 pagine che vi consiglio di leggere1. Tuttavia nel corso degli anni si sono susseguite interpretazioni sul significato, sulla simbologia (una delle più diffuse è sicuramente quella secondo cui sia stata scritta per la crisi di Cuba, fatto temporalmente smentito e che in ogni caso non avrebbe aggiunto nulla al suo senso).
Cosa abbia mosso Dylan a scriverla, credo che non debba interessarci, come non debba interessarci cosa abbia spinto Hopper a dipingere Ufficio a New York.
L’unica cosa che deve interessarci è l’opera. A Hard Rain’s A-Gonna Fall ancora oggi sembra dirci qualcosa di nuovo all’alba di una delle crisi più importanti che la storia recente abbia vissuto. Il tentativo riuscito di sfuggire alle classificazioni spaziali e temporali e di riuscire a fluttuare tra le dimensioni e tra i sentimenti universali dell’uomo.
1Alessandro Portelli – Bob Dylan, pioggia e veleno – Donzelli, 2018