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Neil Young, “On the Beach” (1974)

By marzo 19, 2020 No Comments

Nonostante il successo di Harvest e il primo posto in classifica di “Heart of Gold”, Neil Young trovò subito il modo per rovinare tutto.

Il disco si trascinava dietro una lavorazione piuttosto travagliata.

I dolori lancinanti che da un po’ di tempo soffriva alla schiena gli avevano impedito di suonare la chitarra elettrica in piedi per lunghi mesi, da qui la svolta acustica del disco. Inoltre, l’epilessia che lo aveva sempre accompagnato fin dall’infanzia – e che certo la dipendenza da droghe non aiutava – vicende personali legate alla fine del suo matrimonio e all’incontro con la nuova compagna, l’attrice Carrie Snodgress, nonché problemi delle persone a lui care, come Danny Whitten amico e chitarrista dei Crazy Horse, sempre più infognato nella sua tossicodipendenza, lo avevano segnato parecchio.

Eppure, la rassicurante miscela di country rock, testi impegnati e arrangiamenti d’archi aveva fatto centro. Un altro artista, a quel punto, magari dietro consiglio del proprio manager o della casa discografica, avrebbe fatto uscire un Harvest parte 2, un disco fotocopia o quasi del primo, che gli avrebbe permesso una navigazione serena e fatto mantenere il successo di vendite finalmente raggiunto.

Ma, come dicevo all’inizio, Neil Young trovò il modo di incasinare tutto.

Già il disco successivo, il controverso e anche in parte sconfessato Times Fades Away, conteneva una serie di pezzi inediti registrati dal vivo, che avevano fatto storcere la bocca a molti. Nel frattempo, arrivava la notizia della scomparsa di Danny Whitten, il compagno al quale era stata dedicata la canzone “The Needle and the Damage Done”, e nasceva Zeke, figlio di Young e della Snodgress, al quale, alla nascita, veniva diagnosticato una forma di paralisi cerebrale.

Quello che segue è un periodo scuro.

Un’altra morte per overdose, del roadie e amico Bruce Berry (che viene nominato nel testo del brano e al quale vien e dedicato tutto il disco) e la registrazione di “Tonight’s The Night” – pubblicato però in ordine cronologico successivo – è l’ennesimo passo nella discesa verso il buco nero della depressione. Le immagini del tempo che mostrano un Neil Young sfatto e gonfio, con l’aria persa, ne sono la prova.

Alla fine, arriva On the Beach, il lavoro che completa la trilogia oscura, anche se, al di là delle dure riflessioni e dei momenti che lo hanno generato, fa pensare alla luce che si vede in fondo al tunnel. La foto di copertina mostra il canadese in spiaggia – sembra inverno – di spalle che fissa l’oceano davanti a sé, il muso posteriore di una Cadillac che emerge dalla sabbia e un giornale vicino all’ombrellone.

Con i Crazy Horse in quel momento allo sbando, Young decide di circondarsi di nuovi e vecchi amici, come David Crosby, Graham Nash o Levon Helm della Band.

Poi ci sono le canzoni.

Ho parlato di luce in fondo al tunnel, e questo può essere considerata la sferragliante “Walk On”, che apre il disco, brano rivolto a tutti coloro che hanno criticato in modo più o meno diretto, la tournée post Harvest.
Young certo non le manda a dire: “ Sento alcune persone che sparlano di me / Pigliano il mio nome, se lo passano /Non menzionano i momenti felici/ Fanno le loro cose, io farò le mie”. Amen.

Sembra evidente la volontà di tirarsi fuori dai giorni bui, dai sensi di colpa per non avere fatto abbastanza per Berry e Whitten, ed evitare la apatica autocommiserazione che lo aveva afflitto nei mesi precedenti.
Il piano elettrico di “See the Sky about the Rain” non farebbe pensare infatti a scenari tragici, ma è il testo a gelarci:

“Certi sono destinati alla felicità/ Certi sono destinati alla gloria
Certi sono destinati a vivere con meno/ Chi può raccontare la tua storia?”

Già, chi la può raccontare? Forse solo i musicisti? Nubi scure e cielo pesante che non fanno presagire nulla di buono. Un cielo grigio che fa presagire l’arrivo dell’uragano. Una malata inquietudine tra le parole, che striscia attraverso i lamenti della lap steel e ci fa ripiombare nell’oscurità.

Prima di parlare “Revolution Blues“, uno degli apici del disco, è opportuno fare una premessa.
Il disco esce nel 1974, l’anno dello scandalo Watergate (il titolo del giornale che si vede in copertina è riferito proprio a questo), ma è anche l’anno in cui vengono resi pubblici gli atti del processo a Charles Manson e i suoi complici per i massacri di Bel Air del 1969.
All’epoca Young, come molti altra gente dello spettacolo, risiedeva in case isolate nel Topanga Canyon, nei dintorni di L.A. La notizia dell’omicidio di Sharon Tate impaurì alcuni a tal punto da trasferirsi in altre zone. Si dice che David Crosby, che suonò la chitarra ritmica nel brano, ebbe parecchi problemi a gestire le proprie emozioni a riguardo.

“Be’, ho sentito che Laurel Canyon è pieno di famose star/ Ma le odio peggio dei lebbrosi e le ucciderò nelle loro auto”.

“Revolution Blues”, con il suo andamento subdolo e la voce insinuante, è un atto di accusa: quasi l’omicidio di Bel Air sia diventato il simbolo di una società allo sbando, direbbe qualcuno “da sacchi di sabbia vicino alla finestra”.

Le fucilate che chiudono Easy Rider dovevano risuonare ancora nelle orecchie di molti.

Neil Young non ha abbandonato la vena pessimistica dei lavori precedenti. Ma se “Tonight’s The Night” è un viaggio nell’oscurità, “On the Beach”, invece, è uno sguardo rivolto verso l’esterno, una tetra contemplazione di quello che ci circonda, dove aldilà della nebbia si intravedono sagome poco rassicuranti.
“For The Turnstiles” e “Vampire Blues” (con la sua invettiva contro l’industria del petrolio), chiudono il primo lato e servono ad alleggerire un’atmosfera che è diventata pesante.

In apertura della seconda facciata troviamo il brano che da il titolo al disco.

On the Beach“, una ballata spettrale con la chitarra liquida che ricama sulla base di piano e percussioni è una camminata lungo una spiaggia deserta, uno sguardo a un mare grigio che non ispira serenità, ma al contrario timore indefinito. Una paura e un malessere che non si riescono a scacciare.

Se vogliamo è l’anticipo di quella maestosa cavalcata che sarà “Cortez the Killer su Zuma“, il disco successivo nell’effettiva linea cronologica. Ma mentre in quella canzone si racconta la storia per parlare del quotidiano, nel pezzo in questione il re è nudo con le sue contraddizioni di uomo ma allo stesso tempo c’è anche la presa di coscienza come il suo status lo porti ad estraniarsi da una realtà che viene percepita in modo diverso rispetto alle persone intorno a lui.

“Fuggire dalla città, fuggire dalla città, penso che fuggirò dalla città/ Perché il mondo sta girando, non voglio vederlo girarmi le spalle”

Curiosità: On the Beach è stato uno degli ultimi dischi di Young ad essere stato ristampato nel formato CD (Per la cronaca, “Times Fades Away” sta ancora aspettando). Per molto tempo il disco è stato non disponibile nemmeno come ristampa e solo nel 2004, a quanto pare dopo una sollevazione dei fan e insistenze dei discografici, da parte dell’artista è stato dato il permesso di farlo uscire in digitale.

“Motion Pictures” è dedicato alla sua compagna Carrie Snodgress o meglio alla fine della loro relazione, che sarà definitiva verso la fine del 1974. Pensare che due anni prima, il canadese aveva composto la mielosa e pomposa dichiarazione di amore “A Man Needs a Naid”. “Mi trovo nel profondo di me stesso, ma ne uscirò in qualche modo/ E ti starò davanti, e porterò un sorriso/ Nei tuoi occhi”. Fine. Titoli di coda. Proprio come un film.

Il disco si chiude con “Ambulance Blues“, un plagio – a dire di Young non voluto – del brano “The Needle of the Death” di Bert Jansch, chitarrista e fondatore dei Pentangle, band seminale del Folk /Rock Inglese.
Al furto, verrà posto rimedio solo nel 2014, quando verrò la cover del pezzo verrà inclusa nel disco “A Letter Home”, registrato nei locali della Third Man Records di Jack White.

Ambulance Blues parla del caso Watergate e di Nixon: “Non ho mai conosciuto un uomo capace di dire così tante bugie/ Aveva una storia diversa per ogni paio d’occhi”, ma esplora anche le sue sensazioni contrastanti verso l’avventura con Crosby, Stills e Nash, in quel momento ferma a un punto morto e i sentimenti che prova nei suoi compagni di avventura, spesso causa di liti e separazioni.

“On the Beach” può essere considerato un giro di vite per una nuova partenza oppure chiusura di un ciclo, dipende da come si voglia considerare la carriera di Young. In ogni caso è il lavoro che chiude definitivamente una fase della sua vita e che permette di osservare l’intimità di un uomo che non si vergogna dei propri fallimenti e delle proprie debolezze.

Di sicuro, uno dei suoi dischi migliori, forse troppo poco celebrato in passato , anche per colpa dello stesso autore. Da qui in avanti ci troveremo di fronte a un artista con una nuova visione più politica della realtà – pur nella sua complessità – e meno chiuso all’interno del circolo vizioso dei propri problemi personali.

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