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Un Palermitano alla corte dei Mercury Rev. Gioele Valenti e i suoi progetti Herself e Juju

By settembre 6, 2018 No Comments

“Un palermitano alla corte dei Mercury Rev. Gioele Valenti e i suo progetti Herself e Juju”

Gioele Valenti è il nome  che sta dietro a due interessanti progetti della scena indie. L’acustico e solitario Herself – l’utimo disco sarà Rigel Playground (Urtovox), ottobre 2018, che segue l’ultimo, Gleaming del 2016,  in collaborazione con John Fallon (The Steppes) –  e la one man band Juju, con cui nel 2017 ha realizzato il suo secondo disco , Our  Mother  was a Plant ,  e dove si avvale della collaborazione di un membro degli svedesi  Goat. Lo abbiamo intercettato  prima di partire in tour con i Mercury Rev ( in concerto il 12 settembre a Milano, per chi volesse andare a vederlo).

Ecco cosa ci ha detto.   

Ciao Gioele e benvenuto su Nofunzine.

1) Fin dal tuo primo lavoro come Juju si è notato un linguaggio musicale ben definito. Quello che mi ha sorpreso fin dall’inizio è stato scoprire questo tuo suono così diverso nei due lavori, Juju e Our Mather was a Plant, ma allo stesso tempo immediatamente riconoscibile. È il risultato di un processo lavorativo inseguito a lungo nel tempo, oppure era qualcosa che ti portavi dentro da sempre?

Venivo da un’esperienza estera già definita, avendo co-firmato il primo disco dei Lay Llamas (Ostro) su Rocket Recordings (UK). Questa esperienza mi aveva già portato all’estero, con un tour di supporto ai Goat (allora, compagni di roster) e con live in venue, soprattutto inglesi, di tutto rispetto. Credo di non riuscire a separare ciò che è stato prima (la lunga esperienza di Herself) da ciò che è qui e ora. Herself, ma anche JuJu, seppur con esiti e sostanze diverse, sono il frutto di un lento apprendistato nell’underground (non smaccatamente italiano, né tantomeno palermitano, perché chi mi conosce sa che a Palermo, negli anni, non mi si è visto tanto in giro), una palestra fatta in casa, o DIY, come si usa tanto dire. La differenza, nello specifico, tra i due dischi di JuJu, credo sia dovuta ad un processo naturale di crescita. Non è stata una scelta precisa. Non scelgo mai come suonerà un disco, neanche se mi trovo a operare su materie che conosco bene

2) Sei di Palermo, e sia come Herself sia come Juju, ti sei trovato a suonare in città. Poi è arrivata l’Italia e quindi le collaborazioni importanti con i Goat (Capra Informis dei Goat, ha collaborato al  secondo disco dei Juju), adesso l’imminente tour come supporter ai Mercury Rev . Che cosa hai pensato la prima volta che ti sei trovato davanti a un grande pubblico, specie guardando la realtà palermitana con le sue contraddizioni e le sue incongruenze: ” ce l’ho fatta” oppure doverti confrontare con questi artisti ti sprona ad alzare l’asticella e a cercare sempre di migliorare?

Se con Herself la mia base (almeno logistica) è sempre stata Palermo, anche se di fatto i primi dischi sono stati prodotti dalla label dei Verdena (Jestrai) e quindi le mie esperienze si sono svolte più in lungo in largo per l’Italia che non in Sicilia, con JuJu il discorso è molto diverso. Il primo disco targato JuJu è stato prodotto da una label statunitense (Sunrise Ocean Bender), e la risonanza che ne è scaturita ha ubicazione estera. A parte un paio di live per mettere a punto la band avvenuti proprio a Palermo, sin da subito l’audience è stata estera. Il primo concerto infatti è avvenuto al Liverpool Psych Fest, proprio un battesimo del fuoco. Dunque se sul fronte Herself ho conosciuto l’ipossia di una città come Palermo, per JuJu, grazie al cielo, questo non è avvenuto. E se non fosse stato per gli inglesi, oggi credo che avrei smesso di suonare. Della musica non gliene frega un cazzo a nessuno in Italia. Esistono i social, esistono i talent… ma questo è un altro fenomeno. Non ho pensato in termini di “ce l’ho fatta”, perché è fuori dal mio modo di vedere il mondo, una dimensione poco competitiva la mia, fuori dalla mischia. Non esistono “successi”, piccoli o grandi che siano, che abbiano un carattere di permanenza. Certo, confrontarti con un pubblico colto ti dà delle chance in più in ordine ad una crescita personale. In fondo gli anglosassoni lo hanno codificato il rock, dunque è un po’ come montare tubature a casa di un idraulico. Quantomeno stimolante.

3) Parliamo del tuo side project Herself, anche se forse è riduttivo definirlo tale.  Dove ritroviamo il vero Gioele? Nella trance elettronica di Juju o nei quadretti acustici di Herself? E soprattutto pensi mai un giorno di trasportare i pensieri di Herself, la loro introspezione, in un disco di Juju?

Potrà sembrarti strano, ma di elettronica, nei dischi a nome JuJu ce n’è poca. Quella è più una dimensione live. Il vero Gioele io non lo conosco, temo non lo si trovi né qui né lì. Si fa musica per costruire altro da sé, appunto. C’è una radice profonda legata all’io, ma il tentativo è appunto quello di trascendere i vincoli di un’identità. Direi, parafrasando, here, there and everywhere… La profondità, poi, non è legata a un genere, bensì ad un atto deliberato di magia estetica.

4) Da qualche tempo si parla del ritorno del vinile e  si assiste al lento declino, almeno per il momento, del cd a favore del disco. Tu hai pubblicato  Juju e Our Mother is a Plant in entrambi formati. Era qualcosa che avevi già in mente di fare e quindi anche la produzione del disco è stata orientata in questa direzione?

Quando hai un’etichetta alle spalle (e nella fattispecie per JuJu, la Fuzz Club, e prima ancora la SOB) le politiche legate alla produzione, esulano dai desiderata dell’artista. JuJu si trova in un filone (quello della nuova psichedelia) che è fatalmente legato al vinile, al vintage, all’estetica retro… e fortunatamente i vinili si vendono. Se ne vendono tanti. Considera che Our Mother Was A Plant è andato sold out, in prima tiratura, dopo appena un mese dall’uscita. Certo, la mia label è di Londra, diversamente non so come sarebbe andata. Questo la dice lunga sulla salute degli ascoltatori, secondo me. Cioè, chi è sempre stato interessato alla musica, e non ai fenomeni di costume, continua a comprare la musica, alimentando un circuito sano. Personalmente non mi ritengo un maniaco del vinile, ma l’avvento della digitalizzazione tout court, ha di certo depotenziato l’incisività dell’ascolto. Tutta questa immondizia volante sul web, destruttura il concetto stesso di arte, lo riduce all’ennesima serialità paranoide.

5) Le tue influenze musicali. È una mia impressione che, mentre il primo Juju deve parecchio alla scena indie degli anni novanta, il secondo invece recupera alcune sonorità new wave tipiche degli anni ottanta?  E per gli Herself?

Consideralo un fatto casuale. Le influenze sono quelle di sempre. La mente è una, e multipla al contempo. Ci sono dentro cose degli ’80 e dei ’00, in entrambi i dischi. Passo con leggerezza dai Joy Division a The Cult, da Morricone a Rino Gaetano passando per Ligeti e Claudio Lolli, Bill Callahan, Inspiral Carpets… Davvero non progetto mai un disco. Semmai è vero il contrario. E’ il disco che si impadronisce della mia visione, decide autonomamente sin dalla prima canzone dove andar a parare. L’unica cosa su cui mantengo il controllo è un senso di unità estetica dell’opera. Ma non è mia intenzione quella di recuperare nulla. Non sono per il riciclo. Se accade è casuale. Sono più per la sovrabbondanza e lo ‘sperpero’ creativo

6) Ultima domanda. Sei nominato direttore artistico dell’Ypsigrock  senza vincoli di budget. Quali sarebbero i tre headliner dei tuoi sogni? Oppure sarebbero solo due, perché vuoi riservare l’ultima sera per te?

The Waterboys, Tom Waits, Candlemass.

Non tengo per me nulla. Piuttosto lascio andare. E vado dove mi invitano.

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