Il profondo sud permette di scolpire tutti i possibili moti interiori, innescati da una sensibilità di fondo, quasi un turbine di speranza e desiderio. Raccontare storie e leggende, partendo da una grotta, un fiume, un rito. Tutto sembra connesso da un senso di quiete. Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, ha ormai dimostrato abbastanza negli ultimi anni, consolidando una personalità cangiante che assapora la dimensione umana attraverso un prisma di sfumature sonore. Quell’esordio (assoluto) con cui la voce bassa, controllata, veicolata dai dintorni di un arpeggio o di un ritornello quasi sfuggenti, mai in eccesso nella composizione, aveva portato una nuova luce nel panorama nazionale della musica d’autore. Un meraviglioso declino era un esordio impeccabile, che coniugava il calore di un’abitudine, la precarietà dei gesti, una quotidiana libertà emotiva, la volontà di uno sguardo: erano mille luci che ti accecavano all’improvviso. Allo stesso modo, Egomostro sottoscriveva quelle variazioni, si espandeva verso tutti, arrivava a toccare le corde dell’identità collettiva, ponendoci di fronte alle storture comuni.
Infedele sembra chiudere una trilogia, conclude le tappe, si impone attraverso ritmi surreali, insegue le indifferenze attraverso una cura necessaria della linea narrativa. Come negli altri lavori, anche in questo caso si intravede la necessità di un percorso confidenziale, generato da un desiderio di purezza. Questa “totalità” che tanto rimbomba in uno dei brani migliori del disco sembra voler regalare un’integrità che non tradisce e non si piega alla rinuncia. Le nuove leve del cantautorato nazionale sembrano voler tornare agli albori del suono, a un motivetto che ritorna nei ricordi. Proprio nel descrivere questi cambiamenti, l’infedeltà professata da Colapesce sembra diretta a impedire qualunque dogma che comandi sentimenti e passioni. Le parole lottano contro ogni degrado, evadono ogni imposizione e cercano la strada della terra, la stabilità leale, la lucentezza della volontà. In questa dimensione, non si può rimanere indifferenti ad alcuni passaggi che contraddistinguono la gestualità testuale di Colapesce, irriverente verso l’abitudine sociale e proiettato verso una quiete individuale e soggettiva, come in Maometto a Milano (“Il qualunquismo che poi genera soldi, siete tutti felici siete tutti risolti. Qui di sbagliato ci sono anch’io”).
Gli universi ricercati, che riportano alle atmosfere di Dente, ai percorsi di Brunori Sas o alle galassie di Nicolò Carnesi, descrivono un ritorno all’origine, una direzione verso il passato autentico dell’uomo. Tutto sembra guidato da un rituale, una celebrazione del desiderio di felicità, una danza pagana che accompagna le visioni musicali. Ancor prima di essere un possibile concept album, in cui il senso di infedeltà si percepisce in ogni parola e comportamento, che parla di persone e sentimenti, si può scorgere una patina di rispettosa contemplazione, sin dalla ipnotica Pantalica, in cui ogni elemento ha uno scopo, dal fiume alla pietra, per divenire umanità (“Una montagna foriera, una necropoli intera mi mette in mano la vita, quindi mi passa la morte”). Questo cammino rispecchia l’identità di Colapesce, le sue origini e le sue osservazioni sul mondo, così veloce che passa da un’estate rovente a una rivolta personale. Il risultato è uno sguardo romantico libero, che si dissolve nelle stesse parole, così da non illudere ma lasciando una possibilità. La volontà libera è l’unica vera evasione.