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30 anni di UZEDA. Intervista a Giovanna Cacciola

By maggio 23, 2018 No Comments

Come ogni appassionato siciliano di buona musica saprà, il 25 ed il 26 Maggio gli Uzeda festeggeranno trent’anni di attività con un doppio concerto all’Afrobar di Catania, con ospiti stellari, dagli Shellac ai June Of ’44 passando per The Ex… Un appuntamento imperdibile, e che ci offre la giusta occasione per una chiacchierata con la leggenda in persona, Giovanna Cacciola, una delle più grandi vocalist rock di tutti i tempi. A voi il piacevole onere di rivisitare la discografia di una band essenziale per la comprensione del noise rock, e cioè di un movimento musicale ormai sedimentato a livello globale, e di trascorrere due piacevoli serate in compagnia di musica fantastica… 

Mi ritengo un supporter della band sin dai tempi di Waters, e negli anni vi ho spessissimo seguito dal vivo, la prima volta al Camden Falcon di Londra nel lontano Settembre 1993. La perfezione tecnica delle vostre esibizioni dal vivo è leggendaria, e quindi vorrei iniziare subito da un aneddoto “negativo”, se esiste: avete mai “bucato” un concerto?

“Bisognerebbe chiederlo a chi era presente. I concerti ovviamente sono sempre diversi, perché dipende da come stiamo in quell’occasione, sia come band ma anche individualmente. Capita spesso che ognuno di noi abbia una percezione del risultato diametralmente opposta all’altro. Oppure per tutti noi è stato un pessimo concerto e magari è la sera in cui viene più gente a ringraziarci e a dire che per loro è stato magnifico. Credo capiti a tutte le bands. Se poi parli degli “errori”, allora è diverso. Gli errori possono essere estremamente creativi, un gioco, un’occasione per esplorare, per dialogare tra noi e con chi ascolta in un momento e in un modo inaspettato. Quando accade può essere divertente, esaltante, oppure straniante. Ogni volta comunque è una grande opportunità”

Per chi conosce anche sommariamente Catania, la porta Uzeda è un ambiente familiare, e a me ha sempre colpito il suo rappresentare una sorta di cesura tra uno spazio asfittico e sovraffollato (la Pescheria) ed uno arioso e largo che fa da preludio ad un cammino (la Piazza del Duomo che introduce alla Via Etnea)… forse sono fin troppo suggestivo, ma amerei sapere se secondo voi esiste un collegamento tra il nome che avete scelto per la vostra creatura e quello che essa ha espresso in questi anni.

“Per noi la porta Uzeda ha sempre rappresentato un varco, un confine tra la parte popolana della città, quella forse più verace, con meno filtri, che si mostra per quello che è e non ha vergogna di gridare quello che dice, dove c’è il mercato del pesce, cuore dei catanesi, e il porto, e l’altra bellissima, monumentale, ma che anche rappresenta il potere, la classe più agiata e la borghesia. E’ il confine tra due mondi, è guardare da prospettive diverse lo stesso luogo”

La dimensione internazionale degli Uzeda (svariati tour all’estero, ospiti alle Peel Sessions, il licensing per la Touch & Go…) è un vanto per la Sicilia tutta… potete raccontare le tappe che vi hanno condotto a questo inusuale (per una band siciliana) collocamento nella scena rock internazionale?

“Raccontare tutto sarebbe davvero molto lungo e,forse, anche un po’ noioso per chi legge. Cerchiamo da sempre di fare quello che davvero desideriamo. L’obiettivo non è dove si arriva, quella è solo una conseguenza. L’obiettivo è vivere, comunicare. L’obiettivo è per noi suonare per comunicare, per scambiare idee, per conoscere. Non è mai detta o garantita una risposta, un ritorno, neanche in termini d’amicizia o di affetto. Solo cammini e questo percorso ti può portare ovunque, non necessariamente lontano, perché non è questo che conta davvero, almeno fisicamente. Ti porta lontano perché ti dà una visione più ampia di quanto ti circonda, dell’umanità che, che tu lo veda o meno, vive attorno a te ed ha gli stessi tuoi diritti”

Perché nelle Peel Sessions pubblicate da Strange Fruit manca un brano rispetto a quelli elencati in copertina (“New Fast”)?

Quando abbiamo registrato la prima Peel Session c’era rimasto tempo e, malgrado sapessimo che sarebbero stati messi in onda (poi successivamente pubblicati) solo 4 brani, abbiamo deciso di registrarne un quinto. Al momento della stampa hanno dimenticato di togliere il titolo del pezzo che non sarebbe stato incluso perché non c’era spazio.

Mi commentate la vostra discografia? Partiamo da Out Of Colors… è ancora un lavoro poco “personale”, semplicemente diverso o assolutamente coerente col seguito?

“Out of Colors” doveva solo essere una demo ed è diventato il nostro primo disco solo dopo essere stato registrato. E’ più uno studio, stavamo ancora cercando ed eravamo molto influenzati da tutta la musica che ci circondava ed ascoltavamo in quel periodo.

Waters oggi è il disco più ricercato dai collezionisti, ed è considerato appunto da molti un disco di svolta e diversissimo dal precedente… quanto siete d’accordo? Quanto è stato di “impatto” lavorare con Steve Albini?

Sì, è molto diverso dal precedente, ma personalmente non lo considero una svolta, almeno non ancora. Sicuramente avevamo accumulato molta più esperienza e occasioni di scambio tra di noi, tantissime ore al posto prova, tantissimi concerti. L’incontro con Steve è stato sorprendente; ci aspettavamo una specie di energumeno e invece è arrivato un uomo gentile, riservato e molto delicato che ci ha messi a nostro agio sin dal primo momento e si è messo completamente a nostra disposizione con lo scopo di registrare fedelmente quello che noi suonavamo, senza minimamente interferire.

4 presenta una chitarra in meno, ma un suono assolutamente più graffiante. Come lo spiegate? E cosa ha significato in termini di gruppo il passare da cinque a quattro?

4 ha rappresentato davvero una svolta per noi, un cambiamento, una nuova ricerca, comunicare in maniera più diretta. In quattro abbiamo avuto l’esigenza di trovare un modo più minimale di esprimerci e più scarno.

Different Section Wires è, a mio parere, un capolavoro di musica “nervosa”, un disco che sa rappresentare perfettamente il caos organizzato della civiltà industriale avanzata… quanto è stato “nervoso” il lavoro di produzione? Quanto ha eventualmente contribuito a fare fermare la band per anni?

Tutta la musica che facciamo e che abbiamo fatto è sempre nata parallelamente alla nostra esistenza; voglio dire che non ci sono periodi di produzione per Uzeda. Noi semplicemente ci vediamo e suoniamo, nei tempi e nelle modalità che ci permette la nostra vita. La musica che suoniamo è un effetto diretto di come e cosa viviamo e lo è in tempo reale. I cavi a sezione differenziata di cui parliamo siamo noi stessi, esseri umani totalmente diversi l’uno dall’altro, sia nella band come nella società che ci circonda. E nello specifico di questo disco, sono i racconti dell’immergersi nella follia per voce degli stessi protagonisti che raccontano il momento esatto in cui hanno avuto la consapevolezza di allontanarsi per sempre dal percorso razionale che li collegava agli altri, un allontanamento voluto, spesso cercato, un nuovo percorso che non tutti hanno la capacità di comprendere e quindi assolutamente solitario. La pausa non è stata a causa del disco. E’ stata la nostra vita a chiederla.

Stella contiene quello che, per me, è forse il vostro capolavoro, What I Meant When I Called Your Name… ti riconosci nel paragone con Lydia Lunch? In generale, cosa ha significato tornare a lavorare insieme?

Il paragone è davvero lusinghiero e assolutamente non meritato. Tornare a suonare insieme dopo una pausa di tre anni ha significato riprendere il dialogo dove l’avevamo interrotto, riconoscerci poiché eravamo cambiati, riallacciare i nodi, riprendere a costruire.

Esiste a vostro parere una logica con cui incastrare i lavori a nome Bellini nel percorso di Uzeda?

No, non credo. Sono due cose diverse perchè lo scambio avviene con persone che vivono in altri luoghi, lontani e con un background molto diverso dal nostro.

Alcuni tra noi amerebbero sapere, da parte vostra, quanto è radicale o viceversa poco influente l’apporto di Albini nella lavorazione dei vostri dischi… in che termini il produttore viene coinvolto nel vostro proposito artistico?

Steve non è un produttore e lui ci tiene moltissimo a non essere considerato tale. Paradossalmente, questa sua predisposizione da’ comunque un indirizzo preciso alla band, la spinge a registrare con un’idea precisa e chiara di quello che va a fare. Non ci saranno interventi o arrangiamenti risolutivi da parte di un produttore perché sei tu il produttore della tua musica e il risultato è quello che senti. Ti piace? Allora il merito è tuo. Il suo compito invece è di registrare quanto più fedelmente possibile quello che fai ed annullare lo spazio temporale e fisico che separa l’ascoltatore dalla band che ascolta su un supporto.

Le band italiane e straniere che stimate maggiormente, oltre ai fuoriclasse che saranno presenti a fine Maggio?

Ognuno di noi ha le sue preferenze, naturalmente. Ascoltiamo moltissima musica e della più disparata. La stima però presuppone una conoscenza diretta delle persone, un’esperienza approfondita di amicizia o almeno di frequentazione. Certo sono tante le band che stimiamo, sia italiane che straniere e non sarebbe giusto ricordarne solo alcune.

Secondo Piero Scaruffi, che sostanzialmente elogia la vostra produzione, l’unico limite della vostra musica sta nel formato, troppo poco dilatato. Ed in effetti mi domando se non avete mai pensato di osare in questo senso…

Non so cosa intendi per dilatato. Ma so per certo che se sentiamo l’esigenza di un cambiamento, un esperimento o quando siamo alla ricerca di una forma musicale che traduca i nostri pensieri e i nostri sentimenti, non abbiamo nessun problema ad osare, non ci mettiamo limiti. Quindi, qualunque cosa si intenda , se non l’abbiamo fatta fin ora, vuol dire semplicemente che non ci interessava.

Parlatemi della Sicilia

Il posto in cui viviamo e dove siamo felici di vivere, nonostante le ben note difficoltà e contraddizioni. E’ come una pentola dove hanno versato tantissimi sapori e odori, portati dal nord Europa e dall’Africa, dal medio oriente e dalla Grecia, dalla Spagna, dalla Francia. E qualcosa in noi li riconosce ogni volta che li sente e che li assaggia, qualcosa nella nostra memoria si risveglia e li riconosce. Riconosce luoghi dove magari non è mai stato ma che sente dentro di sè e dove ha l’impressione di vivere pur essendo in un posto lontano e diverso e per questo i legami con questa terra sono fortissimi. E’ un posto che condensa tutte le vite che senti essere presenti nella tua.

Agli antipodi, mi piacerebbe che rievocaste il concerto più fantasmagorico mai fatto, o comunque per voi più significativo…

Troppo difficile. Come già ti dicevo, ogni volta ognuno di noi ha una percezione diversa di come è stato un concerto. Le volte in cui siamo stati tutti d’accordo nell’aver percepito un’atmosfera molto particolare, un’energia fortissima, non è stato perché abbiamo “suonato bene”, ma perché eravamo tutti, sia noi che chi ci ascoltava, molto coinvolti emotivamente.

Ci vediamo a Catania a fine Maggio!

Grazie di cuore per questa intervista. A presto!

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